Statua distrutta, una ferita per valori e affetti

Dopo l’amarezza scaturita dai disordini del 15 ottobre, può tornare la speranza che questa povertà spirituale non sia l’ultima parola, e che si possa continuare a lavorare per migliorare se stessi e questo mondo di Giovanni Salmeri

Nella sua celebre «Etica», Pietro Abelardo prende in considerazione il deplorevole caso di una donna che venga violentata all’interno di una chiesa. Che cosa è più grave, egli si domanda, il fatto che sia stata violentata una donna o che ciò sia avvenuto in una chiesa? Incomparabilmente la prima cosa, risponde: offendere una donna significa infatti attentare ad un tempio vivo dello Spirito Santo, mentre la chiesa non è altro che un tempio di pietra. Tuttavia, prosegue, è comprensibile che sia la seconda cosa a scandalizzare di più. Non ci pare che oggi, passati nove secoli dall’epoca di Abelardo, si debba dire qualcosa di fondamentalmente diverso, salvo notare che la sensibilità verso le offese a donne e uomini è diventata maggiore, pure quando ci si dimentica che cristianamente ogni persona è davvero un tempio dello Spirito e che dunque ogni ingiuria ad essa si riflette sul Dio che la abita. Dunque per fortuna non è più vero, come a quei tempi, che la seconda cosa sia punita di più della prima.

Le pacate e incontestabili considerazioni di Abelardo meritano però di essere ripetute ancora oggi, in un’epoca in cui, come qualche tempo fa ricordava il filosofo Fabrice Hadjadj, i cristiani rischiano di cadere in un gioco mimetico con altre religioni, cominciando ad interpretare la «blasfemia» come il peggior delitto. Di fronte a qualsiasi caso di vera o presunta profanazione di simboli cristiani ormai basta attendere qualche minuto per ascoltare il ritornello: che cosa sarebbe accaduto se anziché Gesù o la Madonna fosse stato il simbolo di un’altra religione? Certo, la reazione sarebbe stata molto diversa: ma non perché i cattolici siano diventati timidi e arrendevoli (o almeno non solo per questo), ma piuttosto perché il cristianesimo è sempre stato effettivamente diverso. Basta sfogliare un trattato di morale pure di secoli fa per vedere come la gravità della bestemmia nella tradizione cristiana è costantemente relativizzata dal dubbio sull’effettiva coscienza di chi la pronuncia. Se l’altro non si accorge di ciò che fa, concludevano i saggi moralisti, può essere perfino meglio far finta di nulla. E pure il Vangelo sembra paradossalmente classificare più grave l’offesa ad un uomo («Chi dice al fratello: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna») che quella a Cristo stesso («A chiunque parlerà male del Figlio dell’uomo sarà perdonato»: agli esegeti il difficile compito d’interpretare l’«imperdonabile» bestemmia contro lo Spirito).

Ciononostante, è evidente il motivo per cui una chiesa profanata o una statua distrutta possa ancor oggi ferire di più: in questo caso sono simbolicamente coinvolti valori e affetti che vengono spontaneamente percepiti come un patrimonio comune, come qualcosa che per moltissime persone, benché non per tutte, rappresenta ciò che è più importante nella vita. Ben prima che il cardinale Vallini e padre Lombardi deplorassero, dopo i numerosi altri atti di violenza contro persone, anche l’offesa recata con la distruzione di una statua della Madonna, sono stati i giornali e i siti di ogni orientamento a mostrare proprio la foto di quella statua frantumata come una delle più rappresentative della violenza di cui per una mezza giornata Roma è stata parzialmente ostaggio. Ed è su questo piano che ciò che è avvenuto è gravissimo. La stragrande maggioranza di ciò che nella nostra Europa è forza ideale, certezza che l’uomo vale più delle cose (mai come oggi necessaria), ha avuto la sua origine o la sua mediazione nel cristianesimo. Quella statua e quel crocifisso a pezzi diventano per questo il segno di una povertà assoluta, senza idee e senza risorse, ossessionata dall’idea che il male del mondo si possa eliminare togliendo di mezzo qualche congiurato e ripartendo da zero.

Ma, in chi guarda quelle immagini, dopo l’amarezza può tornare la speranza che questa povertà spirituale non sia l’ultima parola, e che si possa continuare a lavorare per migliorare se stessi e questo mondo, e che vi sia una meta migliore per chi è affaticato e oppresso.

24 ottobre 2011

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