Sciascia, lo scrivere come buona azione
Una conversazione tra l’intellettuale siciliano e Davide Lajolo: un confronto sulla vita, l’uomo, la società di Andrea Monda
Questo dialogo che arriva da così vicino (dal 1981 ci distanziano infatti nemmeno 30 anni) e da così lontano (basta leggere i riferimenti politici – e quanti ce ne sono! – per avvertire il brivido della storia che è passata, rapidamente, da quegli anni), tra due «uomini di lettere» («mi ripugna la parola intellettuali», afferma reciso a un certo punto Sciascia), inizia con una premessa che in qualche modo viene sovvertita nel finale: «È un incontro tra due scrittori che vivendo nella vita si occupano delle questioni individuali dell’uomo, della società, del mondo. Entrambi in piena libertà e piena autonomia». Nessun dubbio sulla libertà e l’autonomia: i due, Leonardo Sciascia e Davide Lajolo, ne hanno da vendere (e viene malinconicamente da pensare al «j’accuse» di Pierluigi Battista pubblicato in questi giorni da Rizzoli sul conformismo degli intellettuali) ma il punto controverso è quello relativo alla vita e al rapporto tra vita e scrittura.
L’ultima battuta della breve ma ricca conversazione suona infatti con un altro accento: di fronte all’invito di Lajolo a riconfermare la premessa di partenza («uno scrittore non deve mai dimenticare di essere un uomo e di operare tra milioni di altri uomini nella loro individualità e nelle loro forme di unione per rendere la vita vivibile»), il romanziere siciliano sembra essere colto da un dubbio, da una remora e ricorda un’espressione spagnola, «vivir disviviendo», e aggiunge: «Uno scrittore vive, appunto, disvivendo (la vita la si vive o la si scrive, diceva Pirandello). Che almeno aiuti altri a viverla». Corre per tutta la conversazione (e neanche troppo sottotraccia) questo «freno tirato» di un’atmosfera improntata ad un lucido pessimismo: «E perché non riconoscerlo?» chiede retoricamente Sciascia, «Sono pessimista. […”> sono siciliano, vivo in Sicilia e sono scrittore: potrei non essere pessimista? […”> E una delle ragioni di tristezza, di pessimismo, è la fine del mondo contadino, di quella cultura, di quel rapporto con le cose, col mondo, che a me pare insostituibile».
E qui balza subito il nome di Pasolini accanto a quello di Pirandello: sono forse i due «poli magnetici» tra i quali si gioca l’intera conversazione tra l’astigiano Lajolo e il siciliano Sciascia che si auto-definisce: «Cristiano senza Chiesa e socialista senza partito». I due si incontrano davanti all’altare della coscienza a cui riconoscono il doveroso tributo: «Il nostro primo partito è la coscienza», afferma Lajolo, e Sciascia aggiunge: «Sì, ma una coscienza, direi, fortemente improntata al diritto». Al di là della difesa d’ufficio del suo pessimismo, tra le righe di questa datata e preziosa conversazione (recuperata e ripresentata con intelligente cura da Fabio Pierangeli), emerge una vitalità piena di fiducia e agrodolce speranza in Sciascia che lo porta a dire: «Non riesco a concepire lo scrivere se non come una buona azione».
“Conversazione in una stanza chiusa con Leonardo Sciascia”, di Davide Lajolo (a cura di Fabio Pierangeli), Edilet, 2009, pp. 104, 12 euro
1 febbraio 2010