Riso e resa di Giovannino Guareschi

Tornano in libreria le quattro raccolte di racconti di «Don Camillo e Peppone», primo volume dell’opera omnia dello scrittore la cui grandezza è ancora da scoprire di Paolo Pegoraro

Da bambino avevo una curiosa fissazione: trovare un’immagine del Crocifisso che sorridesse. Ma come – pensava il piccolo – Gesù non sapeva che salvava il mondo? È vero, stava male, ma non era ancora più contento di poterci aiutare? E non se ne capacitava. Ed era tutto uno scartabellare santini e girare per chiese. Niente da fare: artistici o dozzinali, i volti del Crocifisso erano sempre cupissimi. Umani, solo umani. Il “realismo” rinascimentale aveva fatto piazza pulita. Che emozione scoprire anni dopo i grandi crocifissi lignei medioevali, le pale di Giotto, le icone bizantine e, infine, quei maestosi Cristi assisi sulla croce come su un trono, incoronati e sontuosamente vestiti da sovrani, con gli occhi spalancati dei vivi, e volti severi, ma sereni. Di sorrisi, però, nessuna traccia. La piega delle labbra restava ancora un sigillata. Come un segreto. Dovevo incontrare Giovannino Guareschi.

I film del ciclo di don Camillo e Peppone li conoscevo, ma per ovvi limiti della pellicola non si poteva mostrare il tratto più caratteristico di quei 347 racconti: la straordinaria mimica del Crocifisso. Che si preoccupa, s’inquieta, si rasserena, risponde seccato, sospira, è contento, parla gravemente, scrolla le spalle, chiacchiera, si fa serio, sussurra, ora tentenna ora scuote il capo, ammonisce severo, si azzittisce del tutto quasi mettesse il broncio. Piange, perfino: non per i peccati dei suoi figli, ma per il loro amore (vedi il racconto «Cinque più cinque»). Soprattutto, però, sorride: nella prima raccolta avviene almeno 26 volte nel giro di 36 episodi. Insomma, è l’espressione abituale di quel Crocifisso che non è una statua, ma Qualcuno discreto quanto palpitante. Vivo. Crocifisso, eppure vivente: il Risorto.

Le quattro raccolte di racconti di don Camillo e Peppone sono tornate da poco in libreria, in una belle veste grafica rilegata, come primo volume dell’opera omnia di Giovannino Guareschi («Don Camillo e Peppone. Opere» Vol. 1, Rizzoli 2011, pp. 1133, € 32). Non che mancassero dal mercato – richiesti come sono in Italia e all’estero – ma finalmente vedono riconosciuto il loro valore, troppo spesso misconosciuto per ragioni che poco spartiscono con la letteratura. Come se, nel 1954, Guareschi non si fosse portato a casa il premio Bancarella. Giornalista, vignettista, sceneggiatore, editore, fotografo, autore di testi per pubblicità e canzoni, la reale grandezza di Guareschi resta ai più ancora da scoprire. «Uno scrittore scomodo, intelligente, antiretorico, consolatorio – lo ha definito Guido Conti, autore del suo migliore profilo critico – che recuperava la tradizione della novella morale, ciclica, aperta e popolare, che trova le sue radici nei fioretti di San Francesco e nelle novelle anedottiche del Piovano Arlotto.

Personaggi che sono sempre se stessi, senza crisi o cedimento nella loro fede. Sono modelli da feuilleton poi confluiti nelle telenovelas. Guareschi porta nel Novecento altre ragioni, vivendo però nel clima delle avanguardie e dei nuovi media, come la radio, il cinema e la televisione». A riprendere in mano oggi i racconti di don Camillo e Peppone si viene assaliti dalla prepotente vis narrativa del cronista, dal genio fulminante dell’immediatezza, dall’amore geloso per quella «fettaccia di terra» che è la bassa padana. E da un sentimento dell’essenziale da vero espressionista, quello con pochi tratti e ancor meno colori crea immagini, che, viste una volta sola, non si dimenticano per il resto della vita. Quasi come le vignette che aprono i suoi racconti, con quei due pupazzi stralunati dai capelli di stoppa – un angelo e un diavolo – impegnati a tirarsi le peggiori birbate, e puntualmente richiamati all’ordine dalla voce del Cristo. Il cui volto Guareschi non disegna mai. Perché, come puntualizza egli stesso, è «il mio Cristo: cioè la voce della mia coscienza».

Tra le tante caratteristiche della scrittura di Guareschi c’è l’indomita fisicità dei suoi personaggi. La pagina gli va stretta. La gestualità è spiccia e diretta, che si tratti di una carezza o – molto più probabile – di uno sganassone. Don Camillo e Peppone parlano soprattutto con il corpo. Il Crocifisso, l’Immobile, solo con il volto e con la voce. Eppure c’è un gesto che accomuna tutti loro: quello di “allargare le braccia”. In segno di resa. Un gesto tipico di don Camillo, quando si trova costretto a cedere al buon senso del Cristo, ma che sfugge talvolta anche a Peppone e ad altri personaggi. Allargare le braccia – magari scuotendo la testa – per far spazio alle ragioni dell’altro. È il segno della loro conversione, è imitare la braccia infinitamente aperte di quel Crocifisso inchiodato alla sua eterna missione eppure sempre sorridente. «Quelle braccia spalancate – ha scritto un altro parmense celebre, il fumettista Leo Ortolani – come quando vedi un amico da lontano e fai quel gesto, per dirgli che sei felice di vederlo, prima ancora che possa udire la tua voce».

21 ottobre 2011

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