Pupi Avati

Il regista, produttore e autore raconta l’approccio con la macchina da presa e il rapporto tra sacro e creatività di Francesco Lalli

Su Sat2000 va in onda “A est di dove” che è solo l’ultima fatica televisiva di un grande regista, produttore e autore come Pupi Avati. Una trentina di film all’attivo, Giuseppe Avati, detto Pupi, nasce a Bologna nel 1938, da una famiglia borghese. Dopo aver frequentato la facoltà di scienze politiche s’impiega in una ditta di surgelati e nel tempo libero s’appassiona al jazz, divenendo musicista dilettante. L’incontro folgorante con il cinema avviene con la visione di “Otto e mezzo” di Federico Fellini che gli cambia la vita e il mestiere. Ormai romano d’adozione, visti i lunghi anni di permanenza nella Capitale, parla a Romasette.it di una produzione davvero unica nel panorama cinematografico italiano.

Molte delle sue opere sono incentrate sui temi dell’amore rifiutato, della sconfitta, della nostalgia. A prima vista temi lontani dalla società del successo professionale e amoroso, dell’affermazione di sé e del “cogli l’attimo”. Eppure i suoi film hanno un notevole successo. Come si spiega la contraddizione?
Tutto dipende dal fatto che ha visibilità solo chi raggiunge la notorietà, chi s’impone attraverso scelte professionali, ideologiche, politiche. Il contenuto della scelta è del tutto secondario, inutile. Per la stragrande maggioranza delle persone non è così, pur non essendo privi d’identità o personalità non trovano una vetrina che gli dia luce. Il raccontare questi semplici, questi umili, che sono solo apparentemente sconfitti perché in realtà coltivano grandi sogni anche se non riescono a emergere, mi è naturale perché culturalmente appartengo a quel modo di essere e perché sono convinto che ciascuno sia portatore di una vocazione irripetibile e quindi è il mio prossimo a tutti gli effetti.

Lei è uno dei pochissimi registi italiani ad aver frequentato quasi tutti i generi: thriller, horror, musical, film in costume e, con “Regalo di Natale”, anche il poker movie che è quasi un genere a sé. Cosa fornisce in più a un regista una tale esperienza?
È la differenza che passa tra chi conosce i fondamentali del calcio e chi comincia a giocare per la prima volta. Il film di genere ti fornisce i fondamentali, t’insegna come ottenere una risata, o un momento di paura: le emozioni primarie insomma. Non ti insegna però come far riflettere lo spettatore sulla tua opera; quello è un aspetto che si acquisisce diversamente.

C’è un rapporto con la fede o con il sacro nei suoi film?
C’è un rapporto molto forte tra il sacro e la creatività. Mi stupisce il fatto che oggi ci siano molti artisti cosiddetti “laici” che quasi si fregiano di non aver mai analizzato, esplorato quella parte della loro personalità che gli proviene da una zona misteriosa. Per me è il momento in cui ci si trova di fronte a una pagina bianca prima di cominciare una sceneggiatura, un’attesa che è una forma di preghiera. Come nelle nature morte di Morandi: lui fissa delle bottiglie finché non diventano le sue bottiglie. Essere trascinati improvvisamente, quasi rapiti dentro delle storie che prima non c’erano è qualcosa di sacro. E poi c’è la mia fede che ho ereditato dalla mia famiglia e che non ho mai abbandonato: la migliore educazione che un figlio possa ricevere e la stessa che è stata impartita alla maggior parte degli italiani. Un patrimonio che non andrebbe stravolto né trascurato.

Lei tiene spesso delle conferenze sulla differenza tra passione e talento. È una differenza che se fosse giovane oggi capirebbe?
Io ci ho impiegato dodici anni. Pensavo di avere talento nel suonare jazz, poi mi sono accorto che avevo solo passione. Se avessi incontrato in tempo una persona come sono adesso avrei risparmiato sicuramente qualche anno. Questo è un tema centrale dell’esistenza ed è bene che i ragazzi lo sappiano: bisogna confrontarsi con sé stessi, comprendersi a fondo. Dentro ciascuno esiste un talento, il problema è capire qual è e come usarlo per dire chi siamo.

Secondo i dati dell’Anica il 25% degli spettatori del nostro paese nel 2005 ha scelto di vedere almeno un film italiano con un risultato al botteghino che è il più alto del quinquennio. Intanto però i film sono scesi dai 134 del 2004 a 98. Come si spiega? C’è più qualità e meno quantità?
Quello che quei dati non dicono è che l’80% dei film prodotti in Italia non esce perché un’uscita anche modesta costa moltissimo. Quel 25% è frutto di dieci titoli, soprattutto i film di natale. Oggi però la gran parte dell’incasso non la si realizza in sala ma attraverso il noleggio dei Dvd, le pay tv, e così via Il cinema è uscito dall’interesse dei poteri forti: i soldi convergono quasi esclusivamente sulla tv, che per altro si è inventata una propria forma di cinema che chiude la strada al grande schermo; è attraverso di essa che si tocca il paese reale ed è lì che convergono l’attenzione e i soldi. Se lei passa sul Lungotevere e vede dieci camion di produzione significa che stanno girando una fiction, se ne vede tre un film. Questo è diventato il rapporto ormai.

31 maggio 2006

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