Perché scegliere l’ora di religione

di Filippo Morlacchi

Ha ancora senso scegliere di fare religione a scuola? Questa è la domanda a cui vorrei cercare di abbozzare una risposta. La domanda però deve essere ben compresa. Non intendo indicare al ragazzo o alla ragazza chiamato a decidere «chi glielo fa fare», cioè la motivazione soggettiva. Sia perché le disposizioni interiori non si possono comandare, sia perché imbattersi in un insegnante di religione non all’altezza del compito potrebbe demotivare chiunque… Vorrei solamente indicare i motivi per cui ritengo che, nonostante tutto, scegliere di avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica (Irc) sia, nell’insieme, ancora oggi un’opportunità preziosa. E soprattutto a partire dalla scuola secondaria, che è quella in cui aumenta invece il numero di coloro che scelgono di non farla più.

Le obiezioni contro l’Irc sono molte: la prima, di norma, è che «il catechismo si deve fare in parrocchia, per chi vuole, e non a scuola». Rispondo: sono perfettamente d’accordo! Infatti qui parliamo di Irc, cioè di una disciplina scolastica a tutti gli effetti, un insegnamento di tipo culturale. Il che non significa – ci mancherebbe! – che la catechesi parrocchiale debba spegnere l’intelligenza o coltivare l’ignoranza. La vecchia impostazione del catechismo peccava forse di intellettualismo (e non a caso si chiamava sbrigativamente “dottrina”); spesso si risolveva in uno studio mnemonico e un po’ noioso di formule mal comprese. Nessuna nostalgia dunque per quella stagione – anche se probabilmente oggi un recupero dei contenuti oggettivi della fede anche nella catechesi non farebbe male… Nondimeno, l’Irc è qualcosa di alquanto diverso dalla catechesi. Quest’ultima infatti è finalizzata ad introdurre il battezzato nei misteri della fede piuttosto che a spiegarglieli (questo significa «mistagogia»), l’insegnamento scolastico della religione si indirizza invece a credenti e a non credenti per presentare i contenuti della fede cristiana cattolica soprattutto attraverso le sue espressioni culturali. Inserimento nella vita della Chiesa e conoscenza storico- dottrinale del cristianesimo sono due cose distinte.

D’altro canto non va neppure esagerata la differenza tra Irc e catechesi. Giovanni Paolo II in un famoso discorso ai sacerdoti della diocesi di Roma, definì l’insegnamento scolastico e la catechesi parrocchiale due realtà “distinte e complementari”: «Il principio di fondo che deve guidare l’impegno in questo delicato settore della pastorale, è quello della distinzione ed insieme della complementarità tra l’insegnamento della religione e la catechesi». Dunque sono due realtà diverse, ma «v’è fra loro un’intima connessione: identico infatti è il soggetto al quale si rivolgono gli educatori nell’un caso e nell’altro, cioè l’alunno; e identico è altresì il contenuto oggettivo, sul quale verte, pur con differenti modalità, il discorso formativo, condotto nell’insegnamento della religione e nella catechesi. L’insegnamento di religione può essere considerato sia come una qualificata premessa alla catechesi sia come una riflessione ulteriore sui contenuti di catechesi ormai acquisiti» (5 marzo 1981).

In altre parole, è vero che la catechesi dovrebbe insegnare a vivere più consapevolmente la fede cristiana, mentre l’Irc dovrebbe guidare a conoscerne i contenuti, a partire dai presupposti di ragionevolezza (praeambula fidei) e poi riflettendoci sopra. Ma questo non vuol dire che l’Irc debba prescindere dalla fede, presentando nella maniera più impersonale possibile i dati della storia delle religioni. Questo toglierebbe all’Irc la sua caratteristica più importante, e il motivo per cui vale ancora la pensa di sceglierla. E spiego perché.

Trasformare l’«ora di religione (cattolica)» in un’«ora di [storia delle”> religioni» – come qualcuno suggerisce – sarebbe un grave danno per la scuola e per l’educazione, non perché lo studio delle religioni sia una cosa sbagliata, ma perché una presentazione fredda e distaccata dei fatti religiosi avrebbe come principale risultato quello di generare nei ragazzi, davanti ad ogni religione, l’atteggiamento classificatorio e asettico del collezionista di farfalle o di minerali.

La fede non è un fenomeno da museo, anche se qualcuno così vorrebbe presentarlo: è una realtà vitale. L’ora di religione, secondo l’attuale profilo scolastico, vuole essere soprattutto l’occasione per confrontarsi seriamente con le grandi domande di senso e con la risposta cristiana a tali domande, attraverso la guida di un educatore adulto. Questo, sostanzialmente, è il motivo per cui è prevista la possibilità di non avvalersene: perché si tratta di questioni talmente radicali e delicate che la coscienza va lasciata libera. Libera anche di non porsi il problema, se vuole. Limitarsi a descrivere le religioni – cioè in concreto, presentare i fatti religiosi come se fossero farfalle o minerali – potrebbe esser reso tranquillamente un insegnamento obbligatorio, proprio perché non interpella la coscienza di nessuno. Ma penso che non sarebbe un grande guadagno per la scuola.

Al contrario, oggi mi sembra importantissimo risvegliare e coltivare la sensibilità interiore, spirituale e religiosa degli adolescenti: quella sensibilità che, lo sappiamo benissimo, è istintiva nell’infanzia, e rischia di essere travolta con la crescita e con in contatto spesso disarmante con il contesto sociale. Il che non significa – lo ripeto ancora, a scanso di equivoci – voler indottrinare le menti malleabili o le coscienze inermi dei fanciulli attraverso un catechismo ottuso e fazioso. Significa invece coltivare nei bambini e poi nei ragazzi l’apertura alle grandi domande, presentando poi con semplicità la risposta cristiana cattolica e indicandone anche la plausibilità e ragionevolezza. Sta poi alla coscienza di ciascuno integrare il contributo della fede nella propria scelta di vita, o liberamente rifiutarlo. Ma il confronto è sempre utile.

In sintesi, perché scegliere l’ora di religione? Perché fa pensare, perché apre la mente, perché suscita domande e suggerisce risposte. Perché educa a considerare degno di attenzione il mondo dell’interiorità e dello spirito. Perché serve a capire la cultura italiana ed europea, permeata di simboli della fede. Ma soprattutto perché aiuta a comprendere chi è l’uomo, pervicacemente assetato di Assoluto, presentando le domande di senso a cui – legittimamente, ma forse scioccamente – troppo spesso gli adolescenti vengono invitati a sottrarsi.

È davvero così l’Irc di oggi? Purtroppo non posso esserne sicuro. Ma so per certo che vorrei che fosse così, e cerco di impegnarmi perché lo sia.

26 settembre 2008

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