Perché è importante parlare ancora della scuola
di Filippo Morlacchi
Perché parlare ancora della scuola? Sembra che ormai, tra una riforma (Moratti) e l’altra (Fioroni), della scuola italiana non sia rimasto in piedi più nulla. Dum Romae consulitur, Saguntum espugnatur. Mentre nei ministeri si discute senza fine e si producono mensilmente progetti pluriennali, la scuola cade a pezzi, e non solo simbolicamente. In questa situazione, ha ancora senso riflettere sulla questione, parlarne e sforzarsi di trovare possibili soluzioni? Non significa solo amareggiarsi inutilmente la vita?
La risposta è un secco «no»! Perché la scuola è una priorità assoluta, non un lusso di cui si possa ragionevolmente fare a meno. Senza scuola, la società non ha futuro. Senza scuola noi non abbiamo futuro. Non possiamo abbandonare la nave prima che affondi, semplicemente perché non ci sono scialuppe di salvataggio.
Certo, sono esistite civiltà che facevano a meno della scuola, almeno così come la concepiamo oggi, e che trasmettevano la loro cultura in modi diversi (senza andar troppo lontano, basterebbe pensare alla nostra civiltà contadina fino a non molti decenni or sono). E tuttavia nel difficile mondo di oggi, è impensabile rinunciare alla scuola. L’impegno educativo delle famiglie non basta. Ecco perché la questione va messa ancora all’ordine del giorno, con nuova, caparbia convinzione.
La grave difficoltà in cui versano oggi tutte le istituzioni educative – difficoltà condivisa nei vari Paesi europei e oltre l’Atlantico, sebbene con modalità diverse – nasce dall’incapacità di trasmettere alle nuove generazioni non solo le abilità pratiche per affrontare un futuro lavorativo, ma quell’insieme di valori umani condivisi che rende armoniosa e serena la convivenza umana. Sembra che si sia tragicamente inceppato il dinamismo della tradizione, quel naturale e vivo movimento per cui la saggezza degli adulti transitava serenamente verso i giovani, desiderosi di apprendere dalla saggezza dei maiores. Si ha l’impressione che gli adolescenti e i giovani non sappiano più che farsene di quello che noi adulti vorremmo insegnare loro. O forse, sembrano dirci che quel che vorrebbero da noi non è esattamente quello che noi vogliamo dare loro.
In questa rubrica intendiamo affrontare la questione educativa da diversi punti di vista. Cercheremo di informare non tanto su quello che succede a scuola (chi ha figli in età scolare è già informato di queste cose), quanto cercare di comprendere dove sta andando la scuola italiana e soprattutto se questa direzione ci piace e ci sembra giusta o meno. Oltre alla riflessione critica, ci proponiamo anche di segnalare gli elementi positivi, che pur non mancano. Ci sono ancora tante maestre e tanti insegnanti che vivono con gioiosa passione la loro professione. Ci sono bambine/i e ragazze/i pieni di generosità e di buona volontà, che aspettano solo l’incontro con figure di educatori credibili per accoglierne con cuore aperto l’esempio e l’esperienza. E non mancano nemmeno i genitori che si prodigano responsabilmente per fornire ai loro figli gli strumenti di consapevolezza critica ed etica per affrontare la vita.
Infine, ci interrogheremo anche sul ruolo strategico che in questa impegnativa congiuntura può assumere l’insegnamento scolastico della religione cattolica, ed in che modo potrebbe integrarsi con quanto si fa nel catechismo parrocchiale. Saremmo ben contenti di attivare un dialogo, anche per formulare proposte per un’educazione più efficace, non al livello dei massimi sistemi, ma – più ragionevolmente – al livello della nostra città.
Il primo elemento di cui tener conto, è che la scuola non è più l’unico – e probabilmente nemmeno il principale – luogo di apprendimento. Fino a non molto tempo fa, la stragrande maggioranza delle nozioni utili per la vita e per la professione veniva acquisita sui banchi. A scuola e non altrove si imparava a “leggere, scrivere e far di conto”, e ci si preparava così all’attività professionale. Oggi la scuola fornisce agli studenti solo una percentuale minoritaria delle informazioni che serviranno realmente al loro futuro, schiacciata com’è dalla concorrenza di tanti altri ambienti di apprendimento.
I percorsi di educazione formale (quella scolastica) sono sempre più spesso affiancati da altri percorsi di tipo non formale (come le lezioni di lingua straniera o strumento musicale) ed informale (come la navigazione in internet o i programmi televisivi). Il risultato è che l’autorevolezza degli insegnanti viene sistematicamente messa in discussione: gli alunni dubitano che conoscere i nomi dei sette re di Roma o dimostrare il teorema di Pitagora possa servire loro più che imparare a programmare in java o fare sport agonistico. E forse hanno anche ragione. Ma il risultato inevitabile è che all’insegnante che interroga su chi viene dopo Numa Pompilio o qual è rapporto tra ipotenusa e cateti viene dato poco credito: «perché vuole sapere da me cose inutili?» – si chiede. E questo rende oggi difficile insegnare.
In seconda battuta, bisogna ricordare che anche il delicato equilibrio del rapporto tra scuola e famiglia è oggi molto spesso compromesso. Dinanzi alle difficoltà del loro compito, i genitori sono frequentemente tentati dalla delega educativa, e risultano assenti: nessuna vigilanza sull’effettivo lavoro scolastico dei figli, e a volte una cecità colpevole dinanzi alle loro inadempienze. Altre volte invece, comprensibilmente preoccupati per l’inadeguatezza delle istituzioni, sono esageratamente presenti, e arrivano perfino ad invadere la sfera di competenza dei docenti.
Non di rado, purtroppo, difendono a spada tratta i propri figli dinanzi agli insegnanti più severi, imputando alla loro imperizia il profitto insufficiente dei figli (i colloqui con i genitori per la consegna dei debiti formativi è un appuntamento comprensibilmente temuto da tutti gli insegnanti); e però spesso questi stessi genitori più “presenti” vogliono anche che i loro figli siano i primi della classe, e li rimproverano di risultati inferiori alle loro aspettative. Cosicché queste creature vivono una confusione schizoide: davanti ai professori vengono esaltati immotivatamente ed esageratamente (“è figlio mio, perciò è bravo per forza: è lei che non riesce a capirlo!”), ma poi a casa non si sentono abbastanza stimati e valorizzati (“devi fare di più!”).
Cosa si può dedurre da questa situazione? Che un’educazione efficace è possibile solo sviluppando delle strategie di rete. La scuola non basta: non ha più il monopolio dell’educazione. La famiglia stessa non basta, perché non può opporsi allo strapotere degli altri ambienti con cui i figli vengono a contatto. Nemmeno la parrocchia – cioè la comunità cristiana – può da sola sostenere il compito educativo. Occorre lavorare insieme. Nella molteplicità dei messaggi, solo la convergenza di diverse istanze educative può sperare in qualche risultato. E per far questo, la prima cosa è far dialogare i soggetti: scuola, famiglia, comunità cristiana.
1 febbraio 2008
[email”>morlacchi@romasette.it[/email”>