«Noah», il kolossal oscura i contenuti

La scommessa è stata quella di coniugare le logiche della spettacolarità americana con le suggestioni derivate dal fascino di tornare a occuparsi del destino dell’uomo nella logica dell’«amore» che vincedi Massimo Giraldi

È uscito la scorsa settimana un film molto atteso. Si parla di Noah (in italiano Noè), una super produzione americana, costruita con la massima attenzione nel mettere in evidenza quegli aspetti e quei particolari che possono toccare la sensibilità dello spettatore contemporaneo, magari di fascia giovanile. Al centro c’è la Bibbia, ossia una vicenda ben conosciuta, di fronte alla quale restare in attesa del risultato è più che lecito. Proprio partendo dal fatto che Darren Aronofsky è regista dalle ambizioni «alte», capace di passare dalle melensaggini di The Fountain alla splendida parabola di The Wrestler, Leone d’oro a Venezia, alla ridondante favola onirica de Il cigno nero.

Accettata la scommessa di dirigere la più grande Storia del mondo, sapendo di poter contare su una base narrativa assai ridotta, il regista ha immaginato un copione che intorno all’episodio del diluvio alimenta l’azione con suggestioni dalla tradizione religiosa e dall’immaginazione personale. Da un lato dunque la scarsità di riferimenti accertati, dall’altro l’intenzione, evidente anche se non dichiarata, di restare «dentro» lo schema del kolossal. Che, al cinema, vuol dire grandi scene, grandi masse che si muovono, dinamica forte e azioni roboanti. Tutto per rendere una storia che appartiene al passato funzionale al nostro presente.

Ecco allora le atmosfere ecologiste che vanno a comporre il viaggio di Noè, ecco i sapori ambientalisti che emanano da luoghi e azioni, ecco luci abbaglianti, visioni profetiche che punteggiano il cammino, sfiorando vari toni di rimandi interiori. Ed ecco, non ultimo, gli Angeli Caduti, ricreati con la tecnologia digitale e disegnati come robot usciti da un film catastrofico. Quando la non lieve durata (138’ con il 3D) arriva alla conclusione, appare evidente che la scommessa è stata quella di coniugare le logiche della spettacolarità americana (sulla scia di certi kolossal biblici anni ’50/’60) con le suggestioni derivate dal fascino di tornare a occuparsi del destino dell’uomo all’interno della logica dell’«amore» che vince.

Di fronte ad una vita nuova che nasce, Noè/Russel Crowe verifica l’assurdità di una salvezza a metà: la seconda occasione che il Creatore ci regala è destinata a tutti, uomini e animali, nella logica di quell’amore universale che non ha tempo, spazio, confini. Superare il conflitto Bene/Male; non avere paura di prendere decisioni che richiedono scelte morali forti e decisive. Forse il regista ha dato troppo spazio alla veste formale, a scapito di quell’approccio più asciutto, umile, silenzioso che avrebbe scavato di più nella coscienza individuale. Uno spettacolo misurato e fruibile, in linea con i tempi ma certo non esaustivo. E forse è meglio così.

14 aprile 2014

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