Napoletango, un mix di ritmi all’Eliseo

Giancarlo Sepe allestisce un omaggio a Napoli e ai ritmi di Buenos Aires grazie a un gruppo di 19 attori-cantanti-ballerini partenopei, ricercatissimi per feste popolari di Toni Colotta

Giancarlo Sepe è da qualche decennio uno dei registi di punta della scena italiana. Come interprete di opere consacrate ha la virtù preclara di percorrere sentieri poco battuti nelle scelte e nelle messinscena. Ma nel suo cammino artistico ha notevolmente ampliato la fisionomia tradizionale della regia «al servizio» dell’autore per assumere in pieno il ruolo di creatore in esclusiva dello spettacolo in un genere teatrale che conta pochi nomi eccellenti: quello del mixage fra linguaggi eterogenei sulla linea di un racconto collettivo legato alla nostra storia nazionale. Due titoli spiccano in questo filone, “Ballando ballando” del 1987, narrazione attraverso coppie di ballo da sala, e “Marathon” del 2000 dove il ballo corale si faceva immagine di una città. In entrambe il regista sfoderava un talento di coreografo.

Tutto questa andava rievocato prima di riferire sull’ultimo impegno del genere firmato da Sepe, “Napoletango”, all’Eliseo fino al 14 novembre. Tanto per non smentirsi circa la continua novità del suo lavoro, il Nostro maneggia, sì, il ballo ma nel contesto di una visione sociale circoscritta a Napoli, all’incontro, come dice il titolo, con una danza di dimensioni mitiche, il tango argentino. E il racconto si dipana anche in forma di recitazione e canto perfettamente fusi. Si parte da un dato reale (o verosimile?), il gruppo di 19 attori-cantanti-ballerini, tutti appartenenti a una «famiglia» di fantasisti ricercati per feste popolari, in arte da gran tempo, napoletanissimi. Familiari stretti o «affiliati» ma indistinguibili grazie alla perfetta assimilazione. Per vie misteriose hanno abbracciato la «specializzazione» del tango.

Questa scintilla ha acceso la fantasia di Sepe nel comporre per loro uno spettacolo che non somiglia a nessuno, suo o di altri: un «musical latino-napoletano». Comporre nel senso di assemblare i portentosi poteri espressivi della famiglia – nel canto, nella parola, nella danza, nel gesto incisivo e fragoroso – lungo l’approccio a quel ballo, il tango, nato nei bassifondi di Buenos Aires con l’apporto, fra gli altri, di napoletani laggiù emigrati. Appena un cenno all’inizio sulle note di una struggente canzone, poi lo spettacolo galoppa evocando le fasi di quell’approccio, dove persino le sgangheratezze hanno dignità di stile in un contesto di tecnica sopraffina.

In questo percorso si sviluppa, si sprigiona il fuoco della vitalità di «maschere» che con i loro scatti ritmici diffondono eccitazione fra il pubblico, plaudente a scena aperta, trascinato dal succedersi incessante di quadri scenici originali. Un gioco di alto mestiere teatrale in cui i discinti corpi femminili non hanno cadute volgari. E sono funzionali alla «festa» che il regista-coreografo ha allestito in omaggio a una Napoli ideale e profondamente umana, profumata di poesia. Che trabocca dal palcoscenico quando i «tanghèri» partenopei in platea coinvolgono gli spettatori nel loro ballo latino-napoletano.

25 ottobre 2010

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