Mirabelli: prospettive per una legge sul fine vita
Il presidente emerito della Corte Costituzionale: «Ci vuole una disciplina sollecita ed equilibrata. Urgente garantire le persone più deboli» di M. Michela Nicolais (Sir)
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«In democrazia si decide ragionando e votando, ed è auspicabile si ragioni, si voti e si ascolti la voce della coscienza, in un settore in cui la legge non può tutto». È l’augurio per una legge sul «fine vita», espresso al Sir da Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale e docente di diritto, nel giorno in cui il Parlamento – dopo la morte di Eluana Englaro – “riparte” dal disegno di legge (ddl) presentato dalla maggioranza un paio di settimane fa e all’esame della commissione Igiene e Sanità del Senato. Argomento del ddl, una decina di articoli in tutto, le “Dichiarazioni anticipate di trattamento” (Dat). Mirabelli giudica un fatto positivo che «si parli di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, più che di testamento biologico. Sembra che ci sia un impegno del Parlamento ad approvarla, anche se è prevedibile uno scontro su qualche punto nodale, ad esempio, sulle questioni dell’alimentazione e dell’idratazione». Abbiamo interpellato il giurista sulle prospettive di una «buona legge».
Quella di Eluana non è stata una morte naturale, ma il frutto della decisione di chi ha agito in base ad una sentenza della magistratura…
C’era un decreto della Corte di Appello di Milano, di volontaria giurisdizione, che autorizzava chi rappresentava Eluana a rifiutare l’alimentazione e l’idratazione e ad intervenire eliminando il sondino. Il decreto non imponeva, ma consentiva, concedeva cioè non l’obbligo, ma la facoltà. La Cassazione ha poi fornito alcune prescrizioni e modalità con cui intervenire, di carattere tecnico o paratecnico, che non si sostituivano però alla disciplina che in ipotesi veniva data sul piano generale. Le modalità con cui si è proceduto andranno verificate: io credo, però, che debba prevalere il sentimento di pietà nei confronti di Eluana, del padre e di tutti coloro che sono stati coinvolti in questa tragica vicenda, che ha innescato una riflessione generale, ha agitato la coscienze. È una vicenda che credo non lasci tranquillo nessuno, neanche chi ha la più radicale certezza del “diritto alla morte”, e che merita un serio impegno di approfondimento.
Cosa significa sul piano giuridico?
Ci vuole una disciplina sollecita ed equilibrata, soprattutto a partire dalla necessità che vengano individuate tutte le garanzie necessarie per evitare ogni tipo di “deriva”. La necessità più urgente è quella di garantire le persone più deboli, e deve essere avvertita anche da chi ritiene che la scelta di vivere o morire sia una scelta personale e che il rifiuto dei trattamenti sanitari sia sempre e comunque legittimo.
Da dove partire per una buona legge sul “fine vita”?
Il punto fondamentale per quello che riguarda la formazione della volontà in rapporto ai trattamenti sanitari è il consenso informato, che presuppone quello che è sempre stato un fondamento della responsabilità sanitaria, ossia il rapporto tra medico e paziente – nel singolo caso e nella specifica situazione – e l’attenzione all’adeguatezza e alla proporzionalità degli interventi. Un altro nodo culturale, prima che giuridico, che divide è una lettura corretta dell’art. 32 della nostra Costituzione, dove si afferma nella forma più solenne che la Repubblica tutela la salute. Ma la tutela della salute presuppone la tutela della vita: sarebbe perlomeno singolare una lettura contraria. Quanto al divieto di essere sottoposti ai trattamenti sanitari obbligatori – al di là delle contrapposizioni relative a vicende del passato, in cui le sperimentazioni mediche andavano contro la volontà della persona in modo tale da offenderne la dignità – la libertà di scelta è un principio valido, ma esige il consenso informato, sulla base della proporzionalità tra le facoltà di scelta della persona e la proporzionalità dei mezzi. Si tratta, in altre parole, di una «valutazione in situazione» che deve prevalere, affermando le garanzie del caso: la proporzionalità del tipo d’intervento, la comprensione della persona e la fiducia nel medico, che informa dei rischi a cui si potrebbe andare incontro, i quali vanno bilanciati tutelando la salute come diritto della persona e interesse della comunità.
Quanto può pesare, in questo momento, il “fattore emotività” sull’attività dei parlamentari?
Il fattore emotivo indubbiamente c’è, e i media rischiano di amplificarlo o di utilizzarlo strumentalmente a seconda del loro orientamento. A mio avviso, è fondamentale l’attenzione a due nodi di fondo: i modi di manifestazione del consenso informato e le garanzie che lo devono accompagnare per un’informazione adeguata e adatta alla valutazione del consenso stesso, e – in secondo luogo – i limiti dell’anticipazione di questo consenso, che richiede di per sé l’attualità della valutazione e che è mutevole a seconda del contesto in cui il soggetto si trova ad esprimerlo. La dignità della persona, inoltre, va sempre e comunque preservata, ovviamente anche attraverso il rifiuto di trattamenti sanitari, ove questi offendano la persona.
11 febbraio 2009