Mervyn Peake, il fulgore della fantasia

Con lo sguardo di un bambino, l’autore svela che cos’è autentica fantasia: una scrittura iperreale che incanta con la mistura di meraviglioso e pauroso tipica dei disegni dei più piccoli di Paolo Pegoraro

“Gormenghast” è il titolo della monumentale saga che Mervyn Peake – poeta, romanziere, pittore, illustratore, reporter – compose tra il 1946 e il 1959, pressoché in parallelo al capolavoro di Tolkien. Nel suo mondo, però, non troverete artefatti incantati né eserciti, non viaggi presso continenti remoti o popoli esotici e tanto meno scuole di magia. Allora cos’è Gormenghast? È un castello «infinito e insensato come una giornata tenebrosa», un «desolato formicaio di pietra» di cui nessuno conosce le proporzioni. Vero protagonista dell’opera è proprio la fortezza di Gormenghast: «Il castello si alzava sull’orizzonte come la gigantesca scogliera di un continente; un litorale rosicchiato da innumerevoli insenature e morso in profondità da baie ombreggiate. Un continente, con un assembramento di isole al largo delle coste; isole di tutte le forme che una torre può assumere; arcipelaghi interi; istmi e promontori; tetre penisole di pietra frastagliata – un panorama inesauribile». L’addossamento ipertrofico di aggettivi e subordinate ne rispecchia perfettamente la struttura impossibile da abbracciare con un colpo d’occhio, inafferrabile, mutevole, perennemente incompleta. Perché Gormenghast è, soprattutto, la concrezione della Legge e del Rituale: «Un mondo dove il cambiamento era un delitto» e la morte per mancanza d’amore è abitudine.

In questa sgangherata corte dei miracoli vivono personaggi memorabili che, a dispetto dell’apparente stravaganza, il lettore dovrà prendere assolutamente sul serio: la monumentale Contessa Gertrude con il suo seguito di duecento gatti bianchi; la figlia Fucsia, sensibilissima, malinconica e struggente; le gemelle Cora e Clarice, sciocche quanto cattive, dagli occhi «vacui come funghi»; Ferraguzzo, lo sguattero subdolo e ambizioso; il pirotecnico dottor Floristrazio di fatua favella e la sorella Irma, archetipo di ogni zitella. E inoltre Maestri del Rito con nomi degni di diavoli danteschi (Agrimonio, Barbacane) e la scalcagnata truppa del corpo docenti: Carampanio, Opus Flatulo, Flanelgatto, Pentaprisma… una schiatta indolente e arrivista da far rizzare i capelli anche al peggior professore di Hogwarts. E poi c’è il giovane e irrequieto Tito, settantasettesimo Conte del casato de’ Lamenti, che succederà al padre Sepulcrio…

Opera culto in Inghilterra – la BBC le ha addirittura dedicato una serie televisiva – in Italia la trilogia è stata tradotta nell’arco di tre decadi: Tito di Gormenghast (1981), Gormenghast (2005) e Via da Gormenghast (2010), quest’ultimo una ricostruzione effettuata sugli appunti dell’autore, deceduto nel 1968 dopo una decennale convivenza con il morbo di Parkinson. Il capolavoro di Peake merita di essere conosciuto per molte ragioni tra cui, innanzi tutto, l’intensità visionaria. Perché più che un luogo concreto Gormenghast è un’entità metafisica. Alessandro Zaccuri ha puntualmente notato che «Gormenghast è anzitutto “Il castello” di Kafka contemplato dall’interno: non un luogo al quale non si può accedere ma, in modo altrettanto angoscioso, un luogo dal quale è impossibile evadere». Anche il Castello di Kafka, che l’agrimensore K. contempla solo da lontano, appare una costruzione disarmonica, arraffata, con tetti di lamiere addossate a torrette. Pure Barbacane, il ripugnante Maestro del Rito, ricorda i barbuti e luridi custodi che sempre sbarrano la strada al ribelle kafkiano. Perché di ribelli, a Gormenghast, ce ne sono due; eppure, per paradosso, sono avversari. Uno è il garzone sfuggito dalle cucine per scalare il castello fino ai tetti: Ferraguzzo, prodotto di quel mondo artificiale, il rivoluzionario che vuole abbattere l’Autorità per occuparne il posto. Mentre l’altro è Tito, il bambino, l’anarchico naturale che ha la grazia del gioco. Ed è lo sguardo del bambino a caratterizzare la scrittura di Peake e a svelarci che cos’è autentica fantasia: una scrittura «aggressivamente tridimensionale», come ha scritto Antony Burgess, e iperreale che trapassa dal sogno in allucinazione, e ci incanta con quella mistura di meraviglioso e pauroso che ritroviamo negli sproporzionati disegni dei più piccoli. Il tuttopieno di Peake è il rovescio della torturante linearità di Kafka, la sua precisione di miniaturista ingigantisce l’insignificante fino a renderlo mostruoso e irriconoscibile, le pause esasperanti caricano le azioni dei personaggi all’inverosimile, pronti a schizzare come molle. Poiché la vera magia non è questione di bacchette magiche, ma di occhi spalancati sulla realtà.

25 maggio 2012

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