Maturità, grande messinscena nazionale

Molti studenti hanno arrancato alla ricerca di un varco tra Quasimodo, le periferie di Piano e l’Europa. Ogni manifestazione d’ingegno risulta appiattita dagli standard di valutazione di Eraldo Affinati

Ho sempre creduto che, negli esami di Stato previsti al termine della scuola media superiore, i contenuti tematici, per chi ama scrivere, possano essere tutto sommato ininfluenti: ogni argomento è riducibile a una visione personale, si tratta soltanto di riuscire a calibrarlo secondo il proprio taglio stilistico. Purtroppo le tipologie testuali sulle quali i ragazzi sono chiamati a misurarsi, invece di scatenare la loro fantasia, rischiano di imbrigliarla, spingendoli alla citazione dei brani fotocopiati, in un semplice copia-incolla, con la conseguenza di mortificare ogni inventiva.

È chiaro che questo non riguarda i veri appassionati di letteratura, i quali sapranno trovarsi sempre da soli la migliore libertà operativa. Per tutti gli altri il titolo, come un cartellone che ci dice quale direzione prendere, resta fondamentale.

Ecco perché quest’anno, posti di fronte alle tracce della prova d’italiano, all’inizio molti studenti hanno arrancato: sembrava difficile trovare un varco utile fra le varie proposte. La gazza nera sugli aranci di Salvatore Quasimodo, al centro dell’analisi del testo, pareva abbastanza lontana dalla loro sensibilità, soprattutto a livello linguistico, quasi quanto la destrutturazione che Adorno compie sul concetto del dono. Perfino i rammendi periferici enunciati da Renzo Piano, recentemente portati alla ribalta dal nostro giovane premier, non suscitavano particolari attrattive.

Per fortuna, dopo qualche minuto di perplessità, le teste hanno cominciato a ragionare. È sempre significativo vedere gli adolescenti al lavoro, come se illustrassero la forza dell’essere umano, insieme alla sua fragilità, senza maschere, a ingranaggi scoperti. Appena un’ora dopo la distribuzione dei fogli, erano già impegnati a percorrere le strade giuste: una bella schiera rifletteva sulla tecnologia pervasiva, portando dentro al testo l’esperienza diretta dei nativi digitali; non pochi s’indirizzavano verso le violenze del ventesimo secolo, mischiando le carte di Martin Luther King con quelle del Mahatma Gandhi; altri preferivano concentrarsi sulle nuove responsabilità ambientali alternando i timori demografici ai nodi spinosi della cittadinanza mondiale.

Più avventurosi e spericolati parevano semmai gli studenti, tutt’altro che numerosi, i quali avevano scelto il confronto storico, pur fascinoso, fra l’Europa della Grande Guerra e il nostro mondo: impostare un ragionamento di questo tipo implica una consapevolezza non comune in un diciottenne.

Ancora una volta l’impressione che ricavo dagli esami di Stato è quella di una grande messinscena nazionale nel tentativo di simulare una prova di maturità che in realtà non esiste, non soltanto perché nel momento in cui il candidato viene ammesso risulta di fatto già promosso, ma in quanto ogni sua manifestazione d’ingegno risulta appiattita dagli standard di valutazione cui egli deve giocoforza sottomettersi.

Nel caso in cui non lo facesse, il punteggio finale, invece di premiarlo, potrebbe penalizzarlo. Basta osservare le cosiddette tesine che vengono preparate dagli studenti in occasione degli orali: una identica all’altra, raramente danno l’impressione di essere qualcosa di diverso da un mero documento compilativo. Mi dicono che si tratti di un metodo ormai consolidato nel Vecchio Continente. Ma gli italiani hanno inventato il Rinascimento e lo spirito critico. L’Europa è nata nei monasteri benedettini. Anche noi potremmo, recuperando questa coscienza culturale, insegnare qualcosa ai burocrati di Maastricht.

18 giugno 2014

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