Maria Teresa Spagnoletti

Adolescenti in cerca di punti di riferimento: a colloquio con il magistrato del Tribunale per i Minorenni di Roma (foto) di Elena Grazini

Senza il senso delle regole, senza punti di riferimento saldi, in cerca di coerenza. Appaiono così gli adolescenti autori di reati, visti dalla lente di un’osservatrice sul campo qual è Maria Teresa Spagnoletti, magistrato di sorveglianza presso il Tribunale dei Minorenni di Roma. Nata nella capitale nel 1952, Spagnoletti ha iniziato a lavorare in magistratura nel 1977. Dal dicembre dell’81 è al Tribunale dei Minorenni di Roma dove ha svolto tutte le funzioni, sia nel civile che nel penale, settore quest’ultimo nel quale opera ininterrottamente dall’88. Ha ricoperto anche il ruolo di Gip (giudice indagini preliminari) e di Gup (giudice udienze preliminari).

Sono sempre più in aumento episodi di violenza che vedono come protagonisti dei minori. Basti pensare agli stupri da parte di adolescenti avvenuti di recente. Siamo di fronte a casi limite oppure sono dei campanelli d’allarme che devono mettere in allerta?

Fatti di questo genere sono sufficientemente isolati, non rientrano nella normalità. La normalità della devianza minorile è fatta di piccoli furti, spacci o qualche rapina, perlomeno nel Lazio. Si tratta di reati non preoccupanti sotto il profilo dell’allarme sociale. Bisogna considerare inoltre che nella nostra regione una parte considerevole della devianza è costituita da ragazzi nomadi e stranieri che solitamente commettono reati contro il patrimonio. Tuttavia, pur trattandosi di fatti relativamente isolati, non vuol dire che non debbano essere oggetto di attenzione.

Qual’è la sua riflessione in merito?
La riflessione su cui vorrei concentrarmi è se i ragazzi, oggi più di ieri, commettano reati apparentemente privi di motivazione reale.

Quali ad esempio?
Mi riferisco a episodi di estorsione a scuola nei quali un ragazzino diventa la vittima dei compagni, o alle rapine fatte per gioco, o ancora alla violenza sessuale di gruppo. Questi episodi sono commessi da ragazzi che nulla hanno a che vedere con la figura del deviante tipico: non appartengono a famiglie disgregate, non provengono da quartieri a rischio, non provengono da ceti particolarmente disagiati, normalmente frequentano la scuola.

Come spiegare questa violenza, allora?
Innanzitutto un motivo è che oggi rispetto al passato vengono denunciati più reati, soprattutto nell’ambito della sfera sessuale. L’altro fattore su cui invece come adulti dobbiamo interrogarci è che la maggior parte di questi giovani non ha il senso delle regole e dei limiti. Parlando con loro mi accorgo che nella loro famiglia, nel loro contesto di appartenenza, pure se apparentemente “normale”, non sono abituati ad avere limiti o se anche qualcuno li mette non c’è mai chi reagisce alla trasgressione. Oggi gli adulti hanno nei confronti dei ragazzi l’atteggiamento facile che è quello di dire sempre sì a tutto, forse perché presi da mille problemi. Non voglio addossare tutte le colpe ai genitori perché è innegabile che la realtà odierna sia molto complessa. È anche vero però che dire no vuol dire confrontarsi con la trasgressione e con una propria coerenza di vita, dove se è il “no” per il figlio, è il “no” anche per l’adulto. Credo che questo sia un fattore su cui dobbiamo interrogarci. Inoltre, forse anche per la diffusione dei mezzi di comunicazione, i ragazzi sono abituati a vedere che, purtroppo, nella società normalmente vince chi urla più forte ed è, diciamo, più prepotente. Non sono i ragazzi che sono diventati più cattivi, io sono convinta che sia un problema della società, della famiglia, della scuola. È assurdo che un ragazzo di 17 anni incontrando un giudice dica: “Lei è la prima persona che fa quello che dice”. Detto da un ragazzo che appartiene a una famiglia borghese, che va a scuola, che apparentemente non ha problemi deve fare riflettere.

Attraverso quali modalità avviene il recupero di questi ragazzi?
Esistono una serie di possibilità, anche se la cosa importante secondo me è che, qualunque soluzione si adotti, il giovane abbia la consapevolezza che questa è la risposta dello Stato alla sua trasgressione per ristabilire un ordine che è stato rotto dal reato. Una delle norme che trova maggiormente applicazione è la messa alla prova, un sistema di tipo anglosassone. In questo caso il giudice anziché erogare una pena può sospendere il processo e disporre che per un certo periodo di tempo, da pochi mesi a un massimo tre anni, il ragazzo rispetti gli impegni di un progetto che viene elaborato dai servizi sociali in collaborazione con lui ed eventualmente con il nucleo famigliare, se è disponibile. Attraverso gli impegni di questo progetto dimostra a sé stesso e agli altri di essere in grado da un lato di inserirsi correttamente in un contesto sociale e dall’altro di impegnarsi concretamente in un’attività socialmente utile, che può essere di volontariato o similare.

È un sistema che funziona?
Questa è una risposta che funziona soprattutto laddove, e secondo me solo se, il ragazzo ha il senso della responsabilità rispetto a quello che ha commesso. Tendenzialmente si cerca di far svolgere delle attività socialmente utili correlate al tipo di reato che si è compiuto. Nel caso di una rapina a un extracomunitario, un’attività socialmente utile sarà andare alla mensa della Caritas; se il reato è la violenza sessuale, alcune volte sono state fatte messe alla prova consistenti nella frequentazione di un corso sulla sessualità.

E negli altri casi?
Quando i reati sono più gravi o non ci sono i presupposti per una messa alla prova, in fase esecutiva esistono delle misure alternative al carcere che possono servire per avviare un processo di recupero. Personalmente ritengo che rispetto a reati particolarmente gravi, e mi riferisco sopratutto all’omicidio, un passaggio da una struttura detentiva, e quindi dal carcere minorile, è se non indispensabile quantomeno necessario. Un processo di responsabilizzazione, a mio giudizio, non può che passare attraverso una fase, più o meno lunga, di stacco totale rispetto alla vita precedente, perché altrimenti diventa davvero complicato. Sulla base delle esperienza concrete posso dire che laddove c’è stato un passaggio attraverso una struttura carceraria, nella fase dell’esecuzione della pena è più possibile avviare un processo reale di reinserimento per mezzo di misure alternative.

Che ruolo devono avere i mass-media rispetto alla violenza giovanile?
Secondo me i mass media dovrebbero parlare più spesso dei casi positivi e non solo dei casi negativi. Ci sono casi partiti in modo terribile e che ora hanno avviato un percorso di recupero estremamente positivo. Bisognerebbe riuscire a parlare anche di loro.

18 gennaio 2006

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