L’eroismo di Irena, “Nome in codice Jolanta”

Anna Mieszkowska ripercorre la storia della Sendler, cittadina polacca che aiutò centinaia di bambini ebrei a sfuggire all’Olocausto di Marco Testi

“Nome in codice Jolanta” è la storia, scritta da Anna Mieszkowska, di Irena Sendler, una cittadina polacca «scoperta» da alcune studentesse americane che, nel corso di un progetto per le Olimpiadi di Storia (in cui si evidenziava il ruolo di quanti aiutarono gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale), vennero a conoscenza del suo eroismo.

Quasi nessuno era al corrente di ciò che essa aveva fatto per 2.500 bambini ebrei durante l’occupazione tedesca in Polonia, e pochi sapevano che la Sendler era ancora in vita. Una volta contattata, studentesse, giornalisti, capi di Stato capirono di aver di fronte una donna fuori dal comune. Jolanta, il suo nome per la resistenza polacca, aveva vissuto in pieno la tragedia del ghetto, dei massacri e delle deportazioni. Tutto, per lei, poteva essere sopportato, tranne l’idea che i bambini potessero essere deportati e massacrati in una delle più abiette strategie che l’umanità abbia mai conosciuto. Aiutare gli ebrei in quegli anni poteva costare la vita: delazioni, errori, indagini della Gestapo erano possibilità tutt’altro che remote. Irena stessa fu catturata e torturata, dopo tre mesi destinata alla fucilazione e poi liberata dalla resistenza. Non aveva rivelato alcun nome. Avrebbe preferito morire, disse molti anni dopo, perché la sua esistenza era nulla di fronte a quella di migliaia di bambini innocenti.

Il piano di Jolanta era semplice: far uscire in tutti i modi i piccoli dal ghetto circondato dall’esercito tedesco e destinati allo sterminio. Perciò lei e i suoi compagni usarono di tutto, dalle ambulanze ai sacchi. Il pianto dei piccolissimi era coperto dall’abbaiare di un cane appositamente portato. E i bambini prendevano le vie della salvezza, pagando uno scotto terribile in cambio della vita: l’addio definitivo ai loro genitori, che restavano nel ghetto. Furono sistemati in famiglie amiche, in istituzioni, alla macchia, spostati continuamente per evitare delazioni. Sono diventati (alcune loro testimonianze sono presenti nel libro) medici, giornalisti, avvocati. Debbono la vita ad una donna che ha messo in pericolo la propria per la loro salvezza, e che non si vanta di questo.

Un libro prezioso, questo della Mieszkowska, anche perché fa menzione di responsabilità di cui non si parla mai volentieri, per dimenticare invece chi davvero ha fatto qualcosa di concreto per quella povera gente: la Sendler rivela l’azione benefica di enti e associazioni cattoliche che hanno aiutato i perseguitati, mentre la comunità internazionale restava sorda ai telegrammi della resistenza: «Non hanno creduto ai telegrammi. Non ci ha creduto il governo, non ci hanno creduto gli inglesi. Dicevano che avevate un po’ esagerato con la vostra propaganda antitedesca», confessa un inviato inglese paracadutato in Polonia per giustificare la mancata risposta alle missive sul massacro del ghetto.

“Nome in codice Jolanta” di Anna Mieszkowska, San Paolo, 285 pagine, 20 euro.

22 febbraio 2010

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