L’economia, tra dono e gratuità

L’economista Luigino Bruni ha inaugurato il ciclo di incontri promossi da Casa Betania nel suo 20° anniversario: «Perché il cambiamento sia reale occorre liberare la gratuità dal gratis» di Lorena Leonardi

Il sito di Casa Betania

Reciprocità, dono, gratuità: tre parole che «non solo stanno insieme, ma hanno a che fare con l’economia. Anche con quella di un Paese, l’Italia, che non ha più fame di vita, né l’energia morale per immaginare un futuro migliore». Così Luigino Bruni, docente di Economia alla Lumsa e all’Istituto universitario Sophia di Loppiano, ha aperto ieri, 23 aprile, il suo intervento sul “Significato e il valore del dono in una prospettiva di cambiamento relazionale ed economico”, il primo dei quattro appuntamenti promossi da Casa Betania in occasione del ventesimo anniversario della sua fondazione.

Il dono, ha spiegato l’esperto dell’economia di comunione, «era importante ieri come oggi» perché rappresenta una «dimensione dell’umano» e riveste «l’importanze delle cose buone in sé, fatte non per un vantaggio: se lo perdiamo di vista perdiamo l’eccedenza, ossia quel fare una cosa in più perché ci piace e basta». Ed è questo un concetto squisitamente antropologico, nato con la comunità, anzi, “dentro” la comunità, «che etimologicamente deriva da “munus”, contemporaneamente “dono” e “obbligo”, ossia quel sentimento legato al ricambiare i doni ricevuti». Strettamente connesso alla riconoscenza, dunque, il dono «lega le persone più dei contratti» in quanto «crea un’asimmetria tale per cui se non si fa qualcosa per l’altro ci si sente in difetto: se non ci si alterna nel dare e nel ricevere, si crea un rapporto di potere». Pertanto, «se vogliamo che il dono “funzioni”, deve stabilirsi un meccanismo reciproco»: e non costerà poi troppa fatica dal momento che questo schema rimanda alla «dimensione più profonda dell’umano».

Nel dono si incarna una «visione civile, pubblica, laica del vivere sociale, che è ben diversa dal farne il luogo dello sconto, della filantropia: non è un limoncello ma la cena». Allo stesso modo, la crisi che ci ha investito altro non è se non «riduzione del mercato a imprese strumentali» e «mancanza del dono, visto come pericolo» e pertanto «espulso dalla dimensione simbolica nella vita pubblica» dove, in definitiva, «è rimasta poco roba». Così, quella che poteva essere la chance per una «riflessione più vera sui valori della vita» è diventata «un’occasione persa: troppo drogati dal consumismo», non vediamo l’ora che la crisi passi «per ricominciare a consumare come prima». Le alternative, invece, ci sono, e risiedono in «tutte quelle attività periferiche» che vedono «il dono della vita come cooperazione» e l’economia in una chiave «equa e solidale». Risorse non percepite come tali «possono creare lavoro», anche perché le prospettive occupazionali con le grandi imprese o con lo Stato «sono finite»: in compenso «ci sono i parchi, i musei, i beni comuni che richiedono cooperazione, il verde». Perché il cambiamento sia reale occorre, però, «liberare la gratuità dal “gratis”, perché non è un gadget», e restituire all’Italia, assieme a «un progetto politico», dei «partiti nuovi: siamo nel “sabato santo” della nostra era perché – ha spiegato Bruni – un certo mondo è morto, ma non è ancora nato quello nuovo», che darà «più spazio alle donne e ai giovani, i soggetti più fragili».

Tutte le esperienze umane, d’altra parte, oscillano per Bruni «tra le ferite e le benedizioni: mettendo in mezzo mercati, prezzi, gerarchie, si creano sistemi di mediazioni dove non si tocca l’altro. In questo modo non gli si fa male, certo, ma non c’è nemmeno la felicità». In cinese, ha raccontato, “business” si scrive con due ideogrammi: «uno che vuol dire “senso” e l’altro “vita”. Chi fa nascere un’impresa ci mette dentro un pezzo di vita, della sua vita. Nell’ultimo anno un milione di posti di lavoro sono stati persi per licenziamento, ogni giorno imprenditori e lavoratori si suicidano: insieme ad un’azienda affonda anche una parte di chi l’ha creata». Così, la vita in comune va avanti nutrendosi di tre elementi: «L’amicizia fra le persone, la reciprocità e i contratti ben fatti». La ricetta è scoprire «ciascuno il proprio dàimon, lo spirito divino, quella vocazione che se ascoltiamo ci rende felici. Dobbiamo chiederci: cosa vuol fare la parte migliore di me?». L’unica via di salvezza, anche in un momento tanto disperato, è «fare bene le cose: gratuità è lavorare come si deve per otto ore, non quella mezz’ora di straordinario in più, è mettere dignità in ciò che ci impegna». Come faceva quel muratore italiano di cui ci dà notizia Primo Levi: «Mi ha salvato la vita – raccontava il sopravvissuto ad Auschwitz – portandomi cibo di nascosto per sei mesi; detestava i nazisti, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi, non per obbedienza ma per dignità personale».

24 aprile 2013

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