Le radici della violenza

L’inchiesta dopo i recenti fatti di cronaca nella Capitale e nei dintorni. L’emergenza sicurezza è anche emergenza educativa. A colloquio con lo psicologo Luparia, il sociologo Pollo, la giornalista Springhetti di Massimo Angeli

A riproporre l’emergenza sicurezza nella Capitale e nell’hinterland, e a fare di questo gennaio un mese nero, sono stati soprattutto i casi di violenza contro le donne, fino al più recente di Guidonia. Ma le cronache parlano anche di atti di intolleranza, per esempio quello contro un negozio gestito da romeni a Villalba di Guidonia, dopo l’arresto di sei romeni per lo stupro ai danni di una giovane. O l’aggressione al senzatetto indiano a Nettuno. E ancora, riferiscono di casi di bullismo nelle scuole, di minacce verso i più deboli. È, insomma, una società sempre più violenta quella che registrano le pagine dei giornali e che mette paura agli italiani. Sull’argomento abbiamo sentito il parere di tre esperti, anche in relazione ai contenuti della dichiarazione che il cardinale vicario Agostino Vallini diffuso sabato 24 gennaio e che pubblichiamo integralmente in questa pagina.

«Quella in cui viviamo è una società mortifera – spiega Marco Ermes Luparia, psicologo e presidente dell’Apostolato Accademico Salvatoriano -. Tutto risuona in termini di morte, la tv, i film, il linguaggio della politica e del calcio. Tutto è improntato alla violenza, i nostri giovani crescono anche in famiglia tra messaggi e comportamenti violenti. Stiamo vivendo una profezia – continua -. La società vuole la pace, ma in realtà non è coerente. Ed immersi in questo clima, i giovani esorcizzano la violenza con atteggiamenti di sfida. Lo sballo, l’euforia a tutti i costi sono una strategia per contenere il senso depressivo della vita, che, se non è sostenuta da una solida impalcatura etica, sfocia nella violenza. Il grande sbaglio – conclude Luparia – è di credere che la violenza sia fuori di noi. Per questo bisogna educare le famiglie a “convertirsi” e ad assumersi con decisione le proprie responsabilità».

I dati ufficiali disegnano una realtà non proprio in linea con il sentire comune. Di recente il sindaco Gianni Alemanno ha parlato di una diminuzione del 20% dei reati legati alla microcriminalità, mentre le forze dell’ordine quantificano al 10% il calo dei reati legati alla sfera sessuale. Nonostante questo, gli ultimi episodi di violenza hanno fatto riemergere le paure e le insicurezze dei cittadini, tanto che in un recente sondaggio il 75% delle donne fra i 18 ed i 35 anni teme di poter essere vittima di un’aggressione sessuale.

«In questi ultimi anni è montata una concezione della sicurezza illusoria – interviene Mario Pollo, docente di pedagogia generale e sociale alla Lumsa -. Si pensa, cioè, che lo Stato possa garantire una sicurezza assoluta, mentre così non è. Ci si dimentica che la vera sicurezza non nasce da uno stato di polizia, ma dal tessuto di relazioni, dall’attenzione reciproca, in poche parole da uno spirito di comunità che si è, ormai, perso. In questo contesto le forme di violenza diventano più inquietanti ed aumenta il disagio della gente. Non voglio dire che la violenza non esiste – prosegue il professore -. Gli individui hanno perso la capacità di controllare le passioni, di far prevalere la razionalità. Viviamo in un mondo in cui ogni desiderio deve trovare una rapida soddisfazione; si è incapaci di affrontare le privazioni, il dolore. Bisognerebbe veramente aiutare le persone ad uscire dall’individualismo, a scoprire il senso della propria vita e l’autenticità di se stessi».

«Ricordo che sui giornali arrivano solo gli episodi denunciati e che l’80% delle violenze sulle donne avvengono in casa – sottolinea Paola Springhetti, giornalista di Sat 2000 e consigliere nazionale e regionale dell’Unione stampa cattolica italiana -. Per strada gli autori delle violenze sono stranieri o sbandati, e le radici della violenza vanno ricercate anche nella solitudine di queste persone, che di rado vivono relazioni personali significative. È indubbio che gli immigrati devono stare alle nostre regole – prosegue -, ma è difficile starci senza avere gli strumenti per una vita dignitosa».

Non privi di colpe gli stessi mezzi di comunicazione. «Dopo Cogne la tv ha capito che certi delitti facevano audience – dice ancora Springhetti -, al punto che vera e propria drammaturgia è stata spacciata per informazione. Da sempre, come diceva Emilio Rossi, storico direttore del Tg1 deceduto a dicembre, gli uomini, discutendo di fatti gravi, ridefiniscono il confine tra il bene ed il male, tra i tabù e quello che può essere accettato: per questo la cronaca è tanto interessante. Ma l’offerta televisiva è troppo livellata e per avere una vera alternativa bisognerà aspettare lo sviluppo del digitale terrestre. Se il pluralismo fosse reale, la gente si abituerebbe a scegliere, l’informazione sarebbe migliore ed anche i modelli sarebbero differenti».

3 febbraio 2009

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