«Le meraviglie», una fiaba ambientalista

Il film scritto e diretto da Alice Rohrwacher ha vinto il Grand Prix di Cannes 67. La scelta dei temi è affidata ad un linguaggio espressivo ermetico. Film molto problematico, molto adatto per riflessioni di Massimo Giraldi

Al Festival di Cannes che si è appena concluso, l’unico titolo italiano presente nel concorso era Le meraviglie scritto e diretto da Alice Rohrwacher, vincitore del Grand Prix di Cannes 67. Esordiente tre anni fa con Corpo celeste, radiografia aspra e severa di un Meridione ai limiti del degrado, la giovane regista (nata nel 1981) si propone ora con una storia assai diversa. Estate, un grande terreno agricolo al confine tra Umbria e Lazio. Ecco quattro sorelle, capeggiate da Gelsomina, la più grande di 12 anni, alla quale il padre Wolfgang ha assegnato il ruolo di capofamiglia per la gestione dei prodotti della terra. Bisogna far funzionare le regole. Ad allentare gli equilibri arrivano la presenza di Martin, adolescente tedesco inserito in un programma di rieducazione, e la troupe televisiva di un concorso a premi chiamato Il paese delle meraviglie.

Contro il parere del genitore, la ragazza iscrive la famiglia. È un passaggio che impone a tutti (genitori e figlie) di riconsiderare i propri rapporti e di ricompattarsi per affrontare le molte difficoltà. Se nel primo film il bersaglio era l’ingestibile situazione dei centri urbani, qui è come se un gruppo di quei cittadini si fosse allontanato per insediarsi in un luogo (quasi) deserto e difendersi dagli assalti della contemporaneità. «È un film – dice la regista – che racconta della campagna… di animali e fate che abitano la televisione … che è accaduto dopo il Sessantotto … È anche una fiaba». La sintesi aiuta a chiarire, ma poi le immagini appaiono meno nette, e qualche intoppo subentra.

L’impressione è che l’autrice abbia scritto il copione sulla scia dei temi che il dibattito attuale rimanda come i più urgenti e incalzanti: riportare in primo piano ecologia e ambiente; la televisione come luogo dell’abbassamento della fantasia; l’affetto per le figlie espresso dal padre in forme sgraziate e irruenti. E poi l’idea della fine del mondo, l’incubo della scomparsa del bello, anzi delle «meraviglie». Come difendersi, forse chiudendosi in un recinto rivoluzionario e romantico per assicurare il futuro degli adolescenti? Forse la realtà deve chiedere aiuto alla favola. Altrimenti, perché quel cammello che gira nei campi? Perché la primogenita si chiama come la felliniana Gelsomina, simbolo di una condizione femminile subalterna ma carica di spiritualità? La scelta dei temi è affidata ad un linguaggio espressivo più ermetico, meno comprensibile. Affascinante tuttavia perché condotto sulla soglia di domande difficili (dove nasce il disagio esistenziale?) e senza suggerire riposte ultime. Film problematico, molto adatto per riflessioni.

26 maggio 2014

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