La tv è al centro de «Il grande match»

Le vicende di tre gruppi di uomini, ai confini della Terra, determinati a vedere la finale dei mondiali di calcio del 2002 di Massimo Giraldi

Ne «Il grande match», in uscita nelle sale in questo fine settimana, ci sono tre storie parallele che raccontano i problemi e le difficoltà di un gruppo di uomini accomunati da due cose: il fatto di vivere nelle regioni più remote della Terra, e la determinazione di riuscire a vedere la finale dei campionati mondiali di calcio del 2002 tra Brasile e Germania. Ecco allora una famiglia di nomadi della Mongolia, una carovana di Tuareg nel Sahara nigeriano, un gruppo di Indio nell’Amazzonia selvaggia. In tutti c’è l’ansia di arrivare in tempo al televisore più vicino per godersi il match dall’inizio. I nomadi pensano di esserci riusciti quando arrivano al loro rifugio stagionale, mentre fuori imperversano neve e ghiacci. Nell’ampio capannone però si trovano a dover ospitare un pignolo ufficiale russo con i suoi soldati, che minaccia multe e sanzioni per l’uso non autorizzato della corrente elettrica. I Tuareg hanno un apparecchio ma per utilizzarlo devono arrivare in un punto di attacco della luce, e così si aggregano ad un camion strapieno di altre persone. Trovato il palo, tutti si siedono per terra, ma il più autoritario impone di tifare per la Germania, perché i tedeschi da quelle parti sono amici. Anche gli Indio in realtà possiedono un televisore, ma il collegamento risulta molto problematico dentro la foresta. Allora, a partita iniziata, si precipitano prima alla missione dove però devono fare i conti col fatto che il nuovo sacerdote, appena arrivato, è statunitense e sta guardando una partita di baseball; quindi corrono alla segheria dove riescono a vedere il resto della partita. Alla fine il Brasile vince e l’operaio e l’Indio, felicissimi, si abbracciano e si danno appuntamento al 2006. Sul tema, certamente attuale, della globalizzazione dell’informazione, della televisione che elimina le barriere ma anche appiattisce, dell’attenzione per uno stesso avvenimento da parte di popoli diversissimi per cultura e tradizione, il regista spagnolo Olivares (nella foto) costruisce una storiella innocua e leggerina. Tutto si svolge con simpatia, con un’allegra voglia di ironizzare, mettere un po’ alla berlina senza essere mai veramente cattivi né offensivi. Non è dunque un copione di denuncia, ma piuttosto una favoletta aggraziata che sogna un mondo bello e (forse) possibile. Un film in allegria, prima di riprendere fiato e gettarsi nei titoli in uscita dopo ferragosto. Molto atteso «4mesi, 3 settimane,2 giorni», palma d’oro a Cannes, sul tema dell’aborto nella Romania di Cesausescu.

23 luglio 2007

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