La scuola dei problemi

di Filippo Morlacchi

La scuola primaria italiana presenta, come abbiamo visto, un livello qualitativo ancora decisamente discreto. Eppure gli insegnanti delle scuole superiori, sia licei che istituti tecnici i professionali, dichiarano sempre più spesso, con una punta di disfattismo, che i nuovi alunni delle prime classi sono sempre più distratti e svogliati, anzi – come si dice in gergo – decisamente «poco scolarizzati». Come è possibile questo? La deduzione viene istintiva: dipende dal sistematico fallimento educativo della scuola media.

Ma è davvero così? Veramente la scuola media è l’«anello debole» della catena scolastica e il vaso di Pandora da cui provengono tutti i suoi mali? Cerchiamo di riflettere senza pregiudizi e senza precipitazione sull’attuale situazione della scuola secondaria di primo grado (questo il nome tecnico corrente delle vecchie “medie”) per capire un po’ meglio come stanno le cose.

Innanzi tutto, occorre dire che l’età della preadolescenza è veramente un’età difficile. È il famoso periodo in cui i ragazzini non sono “né carne né pesce”: non più bambini perché ormai smaliziati e fin troppo svegli, non ancora ragazzi capaci di un impegno più regolare e costante. Storditi dalle mille proposte commerciali, confusi dalle loro tempeste ormonali, disorientati dal contesto sociale e pieni di mille insicurezze, forse non hanno tutte le colpe. Vivono un’età veramente difficile, di crisi e di passaggio più di ogni altra. E in questo contesto di instabilità interiore e ambientale, anche la scuola ci mette del suo. Infatti un bel giorno, di solito intorno al 10 settembre, si rendono improvvisamente conto di non essere più considerati dei bambini da coccolare, come facevano le loro “maestre” materne e tranquillizzanti (non dimentichiamo che molto spesso la maestra li ha conosciuti quando avevano appena sei anni: età in cui, con quei loro musetti, facevano nella maggioranza dei casi soltanto tenerezza…). No, sono diventati “ragazzi e ragazze”, e come tali vengono apostrofati da un gruppo di insegnanti molto più numeroso dell’anno precedente, dei quali sanno ben poco e che ben poco sanno di loro. E, improvvisamente, davanti a quei nuovi docenti non hanno più una storia personale e conosciuta, ma sono degli emeriti sconosciuti che saranno valutati chissà come (lo shock di un brutto voto al primo compito in classe delle medie può essere davvero traumatico!).

Eppure, a ben guardare, quelle creature in prima media sono ancora bambini: fanno fatica a portare in spalla le loro cartelle piene di libri incomprensibilmente voluminosi e cercano disperatamente di mettersi vicini di banco con gli ex compagni delle elementari per superare la loro timidezza. Appena due anni dopo – in terza media – saranno invece diventati tutt’altro: trasandati e sciatti, spesso volgari nel linguaggio per emulare le prodezze dei “grandi”, disinteressati a quanto si fa in classe, pressati dai genitori che vogliono sapere a quale scuola iscriverli, pieni di brufoli e costretti a vivere in un corpo cresciuto troppo in fretta e quasi a loro insaputa, tanto che quasi non lo riconoscono più come loro…

Insomma, insegnare alle medie è proprio difficile. Ci vuole una vocazione speciale. E forse proprio questo è uno dei problemi principali che affliggono questo triennio critico della scuola italiana: ben pochi sono infatti i docenti che scelgono questa fascia d’età per autentica passione educativa e con adeguata preparazione psicopedagogica. Infatti, molte sono le maestre (e quasi tutti i maestri!) che hanno scelto liberamente per sé, seguendo una personale aspirazione, il mondo tutto sommato affascinante dell’infanzia; non pochi sono i docenti delle superiori che amano la propria disciplina e che la insegnano con sincera convinzione; al contrario mi sembra siano solo una minoranza esigua gli insegnanti di scuola media che hanno maturato la scelta professionale di dedicarsi proprio alla difficile formazione dei preadolescenti. Molti di più sono invece coloro che aspirano al liceo e che accettano di insegnare alle medie solo nell’attesa di transitare altrove. E qui invece si fermano spesso molto a lungo, dato che – se davvero avessero i numeri per insegnare altrove – probabilmente già ci starebbero. E così non solo gli alunni, ma anche i docenti delle medie si sentono “di transito” e precari, e vivono la loro professione con un profondo senso di frustrazione. Si aggiunga poi che spesso si tratta di docenti non giovani, assunti tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta che, a causa del blocco delle cosiddette “pensioni-baby” sono ancora in servizio, anche se ne farebbero volentieri a meno. Certo, questa non è l’unica spiegazione di tutti i problemi della scuola media; ma certamente è un fattore da tenere in considerazione. Su come reagire a questo stato di cose torneremo più avanti.

28 marzo 2008

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