La Sapienza accoglie Moni Ovadia

L’artista milanese porta in scena lo spettacolo musicale “Noi/Altri”, contaminazione di stili e suoni che racconta la storia d’Europa e dei suoi popoli di Mariaelena Finessi

È un’apertura a diversi mondi musicali lo spettacolo di “Noi/Altri”, che Moni Ovadia presenterà in prima romana martedì 11 giugno a conclusione della stagione della Iuc (Istituzione Universitaria dei Concerti). Un progetto, ideato e sviluppato da Ovadia insieme a Mario Ancillotti e Paolo Rocca, il cui perno risiede in quella musica dei popoli nomadi d’Europa che seppe influenzare – un dato, questo, poco conosciuto – la cosiddetta musica colta. Per il concerto – che si terrà nell’aula magna della Sapienza -, musica rom e klezmer, come pure le danze e i canti popolari romeni, si alterneranno a composizioni di grandi musicisti “classici” che negli scorsi 150 anni si sono ispirati alle melodie e ai ritmi di quelle tradizioni. Da Brahms con le sue trascinanti “Danze ungheresi” a Shostakovich con i suoi “Canti ebraici”, passando per Bela Bartok, il primo a studiare con metodo scientifico le musiche dei popoli balcanici. A eseguire il ricco programma saranno la “Moni Ovadia Stage Orchestra” e l’“Ensemble Nuovo Contrappunto” diretto da Mario Ancillotti.

La narrazione dell’artista bulgaro-milanese, che nel pomeriggio dello stesso giorno incontrerà gli studenti presso la facoltà di Lettere dell’ateneo romano, condurrà l’ascoltatore in questo affascinante percorso, stimolo alla comprensione di popoli di diversa origine. “Noi/Altri” non è soltanto una ricerca musicale: attraverso letture e testimonianze storiche vuole creare un ponte di amicizia e condividere patrimoni artistici poi non così distanti, specie se la sensibilità è comune. Moni Ovadia, che di sé dice di essere «un pessimo soggetto» a cui va riconosciuto un «pregio» che è quello di lottare contro il razzismo «fino allo stremo delle forze», sul palco della Sapienza racconterà l’impegno di tutta la sua vita, che affonda le radici in una famiglia ebraico-sefardita (greco-turca da parte di padre, serba da parte di madre) ma le cui esperienze professionali si intrecciano con quelle di artisti rom, nella convinzione che il teatro – come linguaggio universale – possa sostenere la causa dell’esule. «Nella civiltà occidentale – ricorda Ovadia – nessuno è stato considerato “l’altro” e “lo straniero” più dei rom, sinti ed ebrei. Però gli ebrei, dopo la grande catastrofe, sono entrati nel salotto dei vincitori, di coloro ai quali va riconosciuto tutto. I rom e i sinti no. Tutti conoscono la parola “Shoah” e nessuno “Porrajmos”, il divoramento: il loro sterminio non ha ancora avuto un riconoscimento nell’Europa che l’ha prodotto».

Lo spirito di questo spettacolo è racchiuso nelle parole di uno dei suoi ideatori, l’artista Mario Ancillotti: «Zingari, rom e magiari provenienti dall’Asia, e poi ebrei dal medio oriente, portatori di tradizioni lontane e affascinanti, di scale musicali esotiche e misteriose, di danze dai ritmi compositi e “dispari”, di canti di lamento e di esilio, di lontananza e di precarietà, hanno influenzato tutte le culture dei paesi che attraversarono». A loro volta rimanendone influenzati. «Il nostro intento – continua – è quello di evidenziare la forza e la vitalità di questi legami, confrontando e accostando le musiche tradizionali a quelle “colte”». Tutto questo perché «l’arte è un magnifico strumento di amicizia. Nell’esperienza di coloro che si occupano di arte non c’è mai spazio per il razzismo. Forse è questo – s’interroga infine Ancillotti – il segreto della reciproca comprensione?».

7 giugno 2013

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