La liturgia e le sue forme sensibili

di Rebecca Nazzaro

L’esperienza religiosa è intrecciata di esteriore e interiore: quando vive ripiegata nella sola dimensione personale e intima è comunque mancante; a essa, infatti necessita anche il momento della condivisione comunitaria, attraverso cui ognuno riconferma l’appartenenza convinta al corpo ecclesiale.

San Tommaso d’Aquino osserva, a questo proposito, che dobbiamo rendere onore a Dio non solo in spirito, perché Lui ci ha voluti creature corporee ed è proprio attraverso la percezione sensoriale che si verifica la dinamica ascensionale di purificazione dei cuori. Anche San Giovanni Damasceno afferma: «Io non venero la materia, ma venero il Creatore della materia che per causa mia è diventato materia, ha preso dimora nella materia e attraverso la materia ha operato la mia salvezza». Per arrivare a Dio bisogna cioè passare attraverso l’esteriore, la corporeità raggiante e luminosa del culto, i segni sensibili (signa sensibilia) della forma liturgica.

Nell’episodio del “cieco nato” anche Gesù opera il miracolo non per via astratta, ma immergendosi nel mondo fisico degli elementi (la saliva, il fango), con naturale dimestichezza e dimostrandosi intimo alla materia: «Sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Siloe”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva (Gv 9,6-7)». Dio, infatti, non vive in una lontana dimensione intellettualistica ma si è fatto egli stesso corpo, carne e sangue.

Allo stesso modo anche la Liturgia opera attraverso forme sensibili, producendo un coinvolgimento sinestetico, che muove e commuove tutti i sensi: la vista, attraverso gli arredi, i paramenti, le immagini; l’udito, con la parola e la musica; l’olfatto, con l’aspersione dell’incenso; il gusto, nell’Eucaristia; il tatto, con lo scambio del gesto di pace. La ragione quasi si ritira ed è piuttosto il corpo ad essere chiamato a ricevere l’invisibile. Attraverso queste forme, salendo la “scala” del corpo, la Liturgia diventa l’iniziatrice sovrana alla veritatis splendor, alla bellezza intesa nel suo senso più pregnante, religioso. Una meccanica antica, una sapienza sedimentata nei secoli, vera e propria poetica, accompagna il culto, misurando tra pieni e vuoti (la dialettica tra parola e silenzio), presenza e assenza (l’ostensione dell’Eucaristia e la permanenza del mistero divino). Ma soprattutto, la Liturgia, diversamente da una rappresentazione puramente illustrativa, è un accadere; essa è realizzazione in atto, fatta non per spettatori ma per partecipanti.

Non meno dei primi discepoli incaricati di predisporre la “grande sala” necessaria per consumare la cena pasquale (Mc 14,15; Lc 22,12) anche la Chiesa “non ha temuto di sprecare”, investendo le sue migliori risorse per esprimere il suo “stupore adorante” di fronte al dono incommensurabile dell’Eucaristia. Nell’episodio dell’unzione di Betania (Mt 26,8; Mc 14,4; Gv 12,4) alle proteste risentite di Giuda per lo spreco di profumo con cui una donna ha voluto rendere omaggio al Messia, Gesù, senza dimenticare di sottolineare il dovere della carità verso gli indigenti, ci insegna che anche il decoro è dovere altrettanto imprescindibile; e in un mondo ammalato di profanità, approssimazione e bruttezza diffusa, questo insegnamento conserva ancora una sua cocente necessità.

29 aprile 2008

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