«La bella e la bestia», emozione e confusione

L’adattamento costruisce bene luoghi e atmosfere. Meno riuscito è lo sviluppo narrativo. La regia di Gans sceglie un montaggio che confonde le idee e toglie la necessaria aria di sentimentalismo di Massimo Giraldi

Arriva nelle sale La bella e la bestia. Dovrebbe essere sufficiente scriverlo così, in modo rapido e semplice, per creare un tono tra l’evocativo e il proverbiale. Il titolo infatti ha assunto i connotati del modo di dire, dell’espressione ironica, colorita, un po’ beffarda. Di certo da tempo è diventato quello che si definisce un classico della letteratura mondiale. Di cui, a dire il vero, non sono chiare nemmeno le origini. Opere e racconti di varia forma hanno creato il successo letterario tra il 1700 e il 1800. Nel ventesimo secolo sono arrivate le versioni cinematografiche, quella firmata da Jean Cocteau (1946) e, soprattutto, il cartone animato col marchio Walt Disney nel 1991 (premio Oscar 1992 per la migliore canzone).

In particolare all’opera omonima scritta da Madame Villeneuve nel 1756 si ispira questa nuova produzione francese, la prima del terzo millennio, quasi a riprendere le fila di un discorso interrotto solo di fronte al fragoroso successo planetario del prodotto Disney. La storia prende avvio in Francia nel 1810. Caduto in disgrazia dopo il naufragio delle sue navi, un mercante si rifugia in campagna con i suoi sei figli, tre femmine e tre maschi. Durante un viaggio, l’uomo arriva nel regno dove vive la Bestia e ruba una rosa destinata a Belle, la più giovane delle figlie. In questo modo si attira la maledizione della Bestia che ne decreta la condanna a morte. Sentendosi responsabile di questo malvagio destino, Belle decide di sacrificarsi al posto del padre.

Entra nel castello, affronta la Bestia, usa pazienza e coraggio per far emergere quello che la Bestia era stata: un bellissimo e coraggioso principe. Fin dall’inizio siamo calati in un’ambientazione ad alto tasso di sapori romantici e sentimentali, situazioni che dalla felicità precipitano nel dolore. L’adattamento ha indubbi meriti sotto il profilo visivo e formale, costruisce bene luoghi e atmosfere, coinvolge per l’obiettivo di muoversi in quegli stretti spazi nei quali l’assenza di agganci storici trova il giusto surrogato nell’idea di favola assoluta: come dire, quello che vedete è così, è tutto inventato, ciascuno metta un nome e un volto dietro la maschera della bestia, e il gioco è fatto.

Meno riuscito però è lo sviluppo narrativo. La regia di Gans, già autore del non memorabile Il patto dei lupi, sceglie un montaggio che confonde le idee e toglie la necessaria aria di sentimentalismo. Restano una certa emozione che fa la sponda tra i vari piani temporali (il presente, il passato, l’immaginazione del futuro), e il piacere di partecipare ancora una volta alle disavventure di Bella. Guarda caso, lo stesso nome della protagonista di Twilight (2008). Una saga tira l’altra. Così il cinema erode la vita, così il virtuale cambia il reale.

3 marzo 2014

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