Kaurismaki, un film ricco di umanità

Nelle sale, «Miracolo a Le Havre», l’ultimo lavoro del regista finlandese. Da una parte il riferimento alla cronaca, dall’altra uno sguardo malinconico e corrucciato sulla storia di Massimo Giraldi

Aki Kaurismaki è nato in un piccolo centro della Finlandia nel 1957. Ha diretto una decina di film a partire dal 1981. Non si tratta di un cinema che grida, urla, sorprende per gli effetti speciali, anzi, proprio perché ne fa a meno, risulta interessante come l’altra faccia dell’approccio sul contemporaneo sulle pieghe dell’attualità. Il film in sala in questi giorni è «Miracolo a Le Havre»: in originale intitolata semplicemente «Le Havre», presentata con grande successo all’ultimo festival di Cannes, la pellicola conferma lo sguardo straniato e sottile dell’autore sulla vita di oggi.

Siamo appunto a Le Havre, la città francese in Normandia, diventata punto di passaggio per gli immigrati che vogliono raggiungere l’Inghilterra. Qui si muove Marcel Marx, ex scrittore e inguaribile bohémien, in una sorta di esilio volontario dove vive relazionandosi con poche persone e facendo il lustrascarpe. Dopo il «lavoro», passa al bar preferito e infine a casa cena con la fedele moglie Arletty. Quasi per caso il destino gli fa incontrare, all’interno di un gruppo di profughi braccati dalla polizia, il giovane Idrissa, che a Londra ha la mamma. Marcel si prende a cuore il destino del ragazzo, lo nasconde a casa, va alla ricerca del nonno, crea la condizioni per imbarcarlo su una nave in partenza per la penisola britannica. All’ultimo momento l’arrivo delle forze dell’ordine sembra far precipitare tutto ma qui, in modo imprevisto, qualcosa cambia e il ragazzo parte. Allo stesso tempo, Arletty, che era ricoverata per un grave male, viene dichiarata guarita e i due ritornano a casa.

Da una parte dunque c’è la cronaca nella sua forma grave e pressante: i flussi degli immigrati in Europa. «Non ho soluzioni da proporre – dice Kaurismaki – ma ho voluto in qualche modo affrontare la questione, anche se in un film che ha poco di realistico». Dall’altra parte, infatti ecco il Kaurismaki di sempre, quello che getta sulla storia scelta uno sguardo malinconico e corrucciato, disperato ma non drammatico, anzi addirittura rivolto ad un «lieto fine», che non è banale condiscendenza ma soluzione stilistica inquieta, spiazzante, quasi disturbante. Attaccato alla cultura del profondo Nord Europa, il finlandese gira in «esterni» ma fa vivere le vicende in ambienti ristretti, chiusi, quasi isolati e invece pronti ad aprirsi al mondo.

Non ama la modernità il regista, fa muovere i personaggi in luoghi dove vivono oggetti di altre epoche, li illumina con colori netti, castellati, quasi un cromatismo povero. Ancora una volta Kaurismaki si conferma il cantore disilluso ma pieno di speranze di quell’umanità priva di sostanze materiali ma ricca di umanità che non chiede ricompensa.

29 novembre 2011

Potrebbe piacerti anche