Jannacci e la carezza del Nazareno

Ricordo del cantautore milanese non-allineato a quasi un anno dalla morte. Nelle sue canzoni, tra classici e genialità, la devozione all’uomo e alle sue miserie e grandezze di Walter Gatti

Tra poco sarà trascorso un anno. Parlo del 29 marzo, giorno in cui si è spento Enzo Jannacci, in una Milano che cercava a fatica di entrare in primavera. Parlare di Jannacci e cercare di raccontarlo è una cosa difficile. Bisognerebbe parlare di una certa tradizione milanese, di un certo modo di vedere e vivere le cose che per i non milanesi risulta strano oppure improbabile.

Vista da fuori, Milano è una città noiosa, nebbiosa, cinica e poco latina. Vista da dentro Milano è una città diversa, con storia, amori, tradizioni, passioni e compassioni. La Milano di Manzoni e Jannacci, di Testori e Vecchioni (ascoltando Luci a San Siro si capisce molto….) in fin dei conti non è molto diversa nel tempo: una città fatta di ricchi e poveri, di moda e gente che dorme sotto i cavalcavia, di malavita, di finanzieri e di arrivisti.

Una città che aveva e forse ha ancora una grande anima di pietà, anche se vista da fuori non sembra. Una semi-metropoli cresciuta sulla bonomia della sua vecchia cultura laboriosa e accogliente, forse oggi smarrita dentro alla filosofia dell’«ognuno per sé», quando invece una volta era la “madonnina” il vero riferimento di tutti, poveri o ricchi, buoni o cattivi, credenti o mangiapreti, come racconta l’ultimo buon cantautore lombardo, Van de Sfroos, nella sua canzone più bella, 40Pass.

Un disco di Jannacci, datato ’64, raccontava proprio quella Milano, e le canzoni sgorgavano esattamente da quella dignità milanese: impiegati, immigrati, povera gente della Bassa lombarda che arrivava sotto il Duomo e non si capacitava di tutte quelle auto e di tutti quei tram. In quel disco c’era anche El purtava i scarp del tennis, storia accorata di un barbone innamorato, la canzone che lo rese abbastanza famoso negli anni della musica beat, lui che sembrava un non-musicista e che invece aveva in tasca un diploma in conservatorio e che aveva suonato il pianoforte con tutti i più grandi jazzisti americani che erano passati per l’Italia, da Chet Baker a Stan Getz.

Amico fraterno di Giorgio Gaber, vicino a Dario Fo, Adriano Celentano, Bruno Lauzi e Cochi e Renato, Jannacci – che era medico cardiologo – per decenni ha continuato ad essere, tra alti e bassi artistici, televisivi, teatrali, concertistici, la voce di quella Milano che non cambia cuore solo a causa dei soldi facili, della moda e delle modelle, e della folla che riempie i locali sui Navigli o attorno a Corso Como. Testardamente non allineato e anarchico, il medico-cantante ne aveva sempre per tutti, come l’amico Gaber, proprio perché con l’ironia e il sentimento (tanto) sfidava l’idiozia, i luoghi comuni e i valori affermati solo perché vincenti nelle mode.

Canzoni, Jannacci ne ha scritte e incise tante, da Silvano a Ho visto un re, da Vengo anch’io. No, tu No a Ci vuole orecchio, da Vincenzina (probabilmente la più poetica e lirica di tutte, immensa anche se cantata con un filo di voce) a Giovanni telegrafista. Non aveva un cliché compositivo e alternava prodotti classici a genialità assolute. Come nel caso di Quelli che… , un jazz-blues dal testo incredibile, che procede per immagini interrotte, efficacissimi ritratti cinico-satirici sull’insensatezza e la stupidità umana nel tempo presente:

Quelli che da tre anni fanno un lavoro d’équipe convinti d’essere stati assunti da un’altra ditta, oh Yeah / Quelli che votano scheda bianca per non sporcare, oh Yeah / Quelli che con una bella dormita passa tutto, anche il cancro, oh Yeah / Quelli che ti spiegano le tue idee senza fartele capire, oh Yeah / Quelli che organizzano tutto, oh Yeah / Quelli che quando perde l’Inter o il Milan dicono che in fondo è una partita di calcio e poi vanno a casa e picchiano i figli, oh Yeah / Quelli che l’ha detto il telegiornale, oh Yeah / Quelli che lo status quo, che nella misura in cui, che nell’ottica, oh yeah / Quelli che hanno una missione da compiere, oh Yeah / Quelli che sono onesti fino a un certo punto, oh Yeah / Quelli che la mafia “non ci risulta”, oh Yeah / Quelli che lavoriamo tutti per Agnelli, oh Yeah / Quelli che tirano la prima pietra, ma che anche la seconda e la terza e la quarta e…. / Quelli che non si divertono mai, neanche quando ridono, oh Yeah / Quelli che a teatro vanno nelle ultime file per non disturbare, oh yeah / Quelli che hanno cominciato a lavorare da piccoli, non hanno ancora finito… e non sanno… che cavolo fanno…..

Qualche passaggio importante Jannacci l’ha fatto anche al Festival di Sanremo, spiazzando sempre pubblico e telecamere. Nel 1989 con Se me lo dicevi prima (incredibile ritratto di chi fa la morale ai tossici senza sporcarsi le male con la sofferenza) e due anni dopo con La fotografia. Quest’ultima rimane una delle sue canzoni più belle e drammatiche. Racconta di un padre poco di buono, che osserva con il groppo in gola gli eventi dopo che il figlio è stato ucciso in quello che pare proprio un regolamento di conti di bassa malavita di periferia.

Così adesso che è finito tutto e sono andati via e la pioggia scherza con la saracinesca della lavanderia io aspetto solo che magari l’acqua non se lo lavi via quel segno del gesso di quel corpo che han portato via.. / E tu maresciallo che hai continuato a dire andate tutti via andate via che non c’è più niente da vedere niente da capire credo che ti sbagli perché un morto di soli tredici anni è proprio da vedere perché la gente sai magari fa anche finta però le cose è meglio fargliele sapere…

Guarda la fotografia / sembra neanche un ragazzino / io son quello col vino / lui è quello senza motorino / era il solo a non voler capire d’esser stato sfortunato nascere in un paese dove i fiori han paura e il sole è avvelenato e sapeva quanto poco fosse un gioco… la sua faccia nel mirino…

Una canzone che è come un pugno nello stomaco. Le strofe puntano al melodramma, mentre il ritornello butta tutto in macchietta, quasi per stemperare la tensione della narrazione. Dolore, morte, modello di famiglia, modello di società e stato, tragedia personale e tragedia sociale, la pioggia che cancella l’ultimo segno di quello che era l’affetto più caro: ma quando mai si sentono queste corde toccate con tutta questa poesia in una “canzonetta” destinata al pubblico sanremese?

È finita la pioggia e tutto il gesso se l’è portato via, lo so che ti dispiace maresciallo, ma appoggiato alla lavanderia era il mio di figlio, e forse è tutta colpa mia perché come in certi malgoverni se in famiglia il padre ruba anche il figlio a un certo punto vola via e così lui non era lì per caso no. Anche lui sparava e via ma forse il gioco era già stanco e non si è accorto neanche che moriva…

Ecco Jannacci. Il cantante che raccontava dello smarrimento di Vincenzina che attendeva davanti alla fabbrica (canzone uscita come colonna sonora di un film di Monicelli), e poi passava all’ironia desolata di chi ride sul fatto di essere “scoppiato” (in Son sciupà), raccontando di balordi, criminali di mezza tacca e insoliti “pali” di bande di periferia. Sempre con quella devozione all’uomo e alle sue miserie e grandezze che era anche di un altro lombardo, Carlo Emilio Gadda, milanese che si prese la briga di ambientare a Roma il suo libro più famoso, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.

Qualche anno dopo la sua ultima partecipazione a Sanremo, era il 2009, Jannacci, intervistato dal Corriere della Sera, in merito alla vicenda di Eluana Englaro, disse parole che rimangono: «In questi ultimi anni la figura del Cristo è diventata per me fondamentale: è il pensiero della sua fine in croce a rendermi impossibile anche solo l’idea di aiutare qualcuno a morire. Se il Nazareno tornasse ci prenderebbe a sberle tutti quanti. Ce lo meritiamo, eccome. Però avremmo così tanto bisogno di una sua carezza».

21 febbraio 2014

Potrebbe piacerti anche