Jaccottet, l’eternità a rasoterra
Un viaggio nei versi del poeta svizzero Philippe Jacottet che si confronta con l’esperienza del lutto e della vanità delle cose. Alle soglie dei novanta anni la ricerca del segreto della bellezza di Paolo Pegoraro
«Sono un uomo che ha sempre dubitato molto […”> Vivo con questa incertezza e, in un certo momento della vita, mi è sembrato che questa incertezza potesse essere una sorgente di poesia, come un’apertura» (Pensieri sotto le nuvole). Sono parole del poeta svizzero Philippe Jaccottet la cui opera, non a caso, ha attirato l’attenzione del teologo domenicano Jean-Pierre Jossua. L’opera poetica di Jaccottet non è particolarmente ampia, anzi. Versi brevi, i suoi, alternati spesso a pagine di riflessioni, note, meditazioni; ma versi sentiti, pesati, maturati nel tempo.
E proprio grazie al tempo si è andato sviluppando la poetica di Jaccottet, confrontandosi radicalmente con l’esperienza del lutto e della vanità di ogni cosa (emblematico di questa fase il romanzo “L’oscurità”). Ove si volge lo sguardo, infatti, si estende il regno di Anubi «muso di cane». Il visibile è mortale. Ciò che si vede è ciò che gli occhi prendono e consumano. Insaziabili. Vedere è un atto di appropriazione, una conquista avida. Gli occhi divorano. E il visibile non è che preda: «Che cos’è lo sguardo? // Una freccia più aguzza della lingua / la corsa da un estremo all’altro / dal più profondo al più lontano / dal più scuro al più chiaro // un rapace».
La ricerca di Jaccottet, oggi alle soglie dei novanta anni, si è spinta sempre più in là, fino a giungere «dove il più bel libro / non è che un riparo precario». E ha trovato riposo all’ombra di quanto più caduco vi sia: un fiore. «Viole. / Frecce di tenera punta, incapaci di veleno». Ora a essere una freccia non è più l’occhio, ma ciò che esso vede. L’oggetto al posto del soggetto: la direzione si è invertita. Non è più l’io a condurre il gioco, anzi, l’uomo smarrito si piega a terra, umile, per mettersi in ascolto. Di chi? «Convolvoli dei campi: altrettanti discreti annunci dell’alba sparsi ai nostri piedi. / Altrettante bocche infantili che dicono “alba” rasoterra». Fiori «insulsi», senza valore, sparsi nei campi a migliaia, con stupida generosità. Eppure proprio quella corolla potrebbe essere «l’infimo, che apre una via, che traccia una via; ma nulla di più. Quasi ben altro occorresse, a me mai dato, per passare di là» (E, tuttavia).
Il balenare di un colibrì tra le foglie, lo zampettare di un pettirosso, un canto d’usignolo, lo sbocciare di petali selvatici «apre, nel proprio aprirsi, un’altra cosa, molto più di se stesso. È il presentirlo che ti sorprende e ti mette allegria». Presentimento e sorpresa. Jaccottet non si rifugia in una botanica deumanizzata, ritiene al contrario che «occorre ribattezzare i fiori», sgombrare la strada alla bellezza così che il paesaggio parli di nuovo anche a chi si trascina nel sangue (Note al botro). «La parola “stupore” non dice troppo, se si può concepire uno stupore tranquillo, calmo, senza alcuna increspatura, senza scalpore, senza rumore: stupore, d’un tratto, intimo, di essere qui, di avere parte, di avere diritto a questo calore della terra – con l’unica compagnia dei tralci della clematide selvaggia in cui potresti inciampare, e della serratula, la fedele mendicante rosa della fine dell’estate» (Color terra).
In passato c’era già stato almeno un grande poeta che aveva invitato a lasciarsi ammaestrare dall’inimitabile splendore di un singolo fiore in virtù di quel suo stesso essere effimero: «Guardate i gigli […”> erba del campo, che oggi c’è e domani verrà gettata nel forno […”> neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro […”> Non affannatevi dunque per il domani». Possibile che l’eterno segreto della bellezza si possa sfiorare solo attraverso ciò che passa? Forse una bellezza imperitura non avrebbe gli stessi colori del fiore che si leva ogni secondo alla pioggia e al sole. Non palpiterebbe della stessa commossa magnificenza, non conoscerebbe parole di lode. Fiori, «fragili brecce». Caduchi messaggeri di ciò che non decade? «Ti sfuggono, quei fiori; e così appunto ti fanno fuggire, quelle migliaia di chiavi dei campi».
18 giugno 2012