Il teatro “invasivo” di Gabriele Lavia

Intervista al nuovo direttore artistico del Teatro di Roma. «Con-verte il pubblico verso un mito “rappresentato in palcoscenico”, che mette in scena l’essenza dell’uomo» di Toni Colotta

Il Teatro di Roma, la massima struttura stabile a gestione pubblica, è uscito dall’apnea istituzionale cui lo avevano costretto le dimissioni del direttore generale e la scadenza dei rispettivi mandati per presidente e direttore artistico. Con le nuove nomine lo Stabile può respirare a pieni polmoni e affrontare l’impegno degli spettacoli all’Argentina, all’India e nei Teatri “di cintura” fuori del centro storico. Un po’ di suspence c’è stata per la carica di direttore artistico dopo l’uscita di Albertazzi. In predicato erano vari nomi di cartello ma, appena ricostituito, il consiglio di amministrazione ha puntato decisamente su Gabriele Lavia. E lui ha accettato non senza emozione dato che – ha dichiarato – «Roma è una delle città più importanti del pianeta». Lavia ha cortesemente risposto alle domande di Romasette.

Lei non è nuovo a esperienze direttive in area pubblica, quindi ha testa e muscoli per una funzione che è sì artistica ma la porterà a doversi misurare con problemi specifici di una Capitale caratterizzata da situazioni di disagio dove il teatro può svolgere un utile ruolo di aggregazione e dibattito. Anni fa Lei dichiarò che il teatro deve essere “invasivo” e non evasivo. Da direttore artistico come lo metterà in pratica?
Non sono io a dire che il teatro non possa essere evasivo o di-vertente. Il teatro è, per statuto, invasivo e con-vertente. Il teatro con-verte il pubblico verso un mito “rappresentato in palcoscenico”, che mette in scena l’essenza dell’uomo. Essenza è ciò mediante cui e per cui qualche cosa è quello che è. Ogni essenza, quindi, è una origine. Un “archè”. Per questo sulla scena non ci sono “tipi” ma “archetipi”.

C’è in giro un forte bisogno di eticità, di etica pubblica, nella politica e non solo. Ora che dovrà curare l’attività di una istituzione stabile , come pensa che un teatro di questo tipo possa corrispondere a quel bisogno di etica?
Ethos è parola greca che vuol dire “tana”, “luogo dell’abitare di una specie”. Per l’uomo significa luogo dell’abitare dell’“essere”. Il teatro non può che essere etico perché, come ho già detto, sulla scena si muovono archetipi, di fronte ad un insieme di uomini che in questi archetipi si riconoscono o non si riconoscono. Questo evento, che è il rapporto dell’uomo con l’“essere”, non può che accadere in un ethos. Se si intende, con “etico”, qualche cosa che ha a che vedere con un modo di comportarsi, con la morale la questione è diversa. E non fa strettamente parte dell’“evento teatro”.

Non è comodo assidersi nella sua nuova “poltrona” proprio mentre nel Teatro si levano grida di dolore per la riduzione dei finanziamenti pubblici. E’ tutto il comparto dello spettacolo dal vivo a soffrirne, pubblico e privato. Si conferma così quel che lei disse una volta: tutto il Teatro è pubblico perché anche i privati hanno bisogno, per resistere sul palcoscenico, delle sovvenzioni. È ancora così?
Il teatro in Italia è pubblico perché è tutto sovvenzionato. Il che vuol dire che lo Stato considera il teatro come qualcosa di “importante” per cui sia necessario sovvenzionarlo. Succede ora che lo stesso Stato metta, in qualche modo, in difficoltà quello che ritiene così “importante”. Questo dà origine ad una specie di schizofrenia intellettuale, appunto, da parte dello Stato. Come uscirne? Una strada potrebbe essere quella di trovare sovvenzioni private per il teatro. Strada molto difficile da percorrere perché per invogliare qualche soggetto privato a sovvenzionare il teatro occorrerebbe la possibilità di una detrazione fiscale da parte del soggetto privato nei confronti dello Stato.

Roma è anche una città dalla forte simbologia religiosa. Pamela Villoresi (ora anche consigliera di amministrazione dello Stabile) promuove e organizza annualmente il festival teatrale “Divinamente Roma” con una vasta apertura interconfessionale. Pensa di poter portare sul palcoscenico spettacoli di questo segno?
Il teatro è “religioso” in senso “iniziale”. Perché mette in scena i “miti” a cui una società è legata. La religione del teatro non è necessariamente “confessionale”, anzi la storia del teatro sembra dirci proprio il contrario. “Edipo re” non è forse la tragedia che si oppone alla religione degli oracoli?

Lei, si sa, non apprezza l’attuale fisionomia dello spettacolo televisivo, che anzi accusa di aver deviato – diciamo pure corrotto – il gusto degli italiani, allontanandoli dal teatro. Pensa che, oggi come oggi, sia possibile porre rimedio a questa deriva?
Il paragone fra il teatro e la televisione non è possibile. Sono due cose di genere completamente diverso. Il fatto che ci siano “attori” che lavorino in Televisione e “attori” che lavorino in teatro non rende uguali i due generi. La televisione siccome è una “forma” o, se si preferisce, “un format”, non può che “de-formare”. Si può deformare in meglio o in peggio. Dipende dai punti di vista. Il punto di vista di chi programma la televisione non è il mio.

Lei, subito dopo la nomina, ha manifestato l’intenzione di istituire una Compagnia di attori in seno al Teatro di Roma. E ha detto che dovrà essere il motore dello Stabile. Ha già qualcosa in cantiere?
È un’idea che voglio portare avanti e che spero possa trovare un’occasione per nascere, intorno ad un progetto concreto.

29 dicembre 2010

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