Il nuovo film di Ermanno Olmi sull’accoglienza

Con “Il villaggio di cartone” il regista bergamasco propone nelle sale un documentario confortante della meditazione, della preghiera non lacrimosa, che interpella tutti noi di Massimo Giraldi

Nel 2007, dopo la pellicola intitolata “Centochiodi”, aveva detto che non avrebbe più girato storie di finzione. Nel 2009 ecco infatti “Terra Madre”, opera mista tra cronaca, documento e racconto. Ma quest’anno, alla Mostra del cinema di Venezia, dove ha esplicitamente voluto essere fuori concorso, Ermanno Olmi ha confermato che non è facile liberarsi da una passione che ti accompagna da una vita intera, e ha presentato “Il villaggio di cartone”, dalla prossima settimana nelle sale.

Non è semplice rinunciare alla possibilità che il cinema offre di mettere in ordine le molte suggestioni che la realtà ti rovescia addosso e affidarle ad un racconto in grado di superare l’arida quotidianità e creare scenari più ampi. Il cinema della meditazione, della trasfigurazione, della preghiera non lacrimosa ma forte e cosciente chiede a Olmi nuovi interventi dentro le luci e le ombre del Terzo Millennio, nelle pieghe di una società disgregata che però non deve inventare nuovi valori ma trovare il coraggio per aprire quelli antichi ai tempi nuovi. Eccoci in un luogo periferico, da qualche parte nell’Italia di oggi.

Una vecchia chiesa viene dismessa. Gli operai lavorano per staccare quadri, togliere addobbi, smontare oggetti sacri. L’anziano parroco osserva tra incredulità e sgomento. Il suo sguardo è levato «verso il culmine del presbiterio dove la sparizione del Grande Crocefisso è il compimento ultimo dell’atto sacrilego»: così nelle note informative dice il regista, e subito dopo aggiunge: «Tuttavia, di fronte allo scempio della sua chiesa, il vecchio prete avverte l’insorgere di una percezione nuova che lo sostiene(…) Non più la chiesa delle cerimonie liturgiche, degli altari dorati, bensì casa di Dio dove trovano rifugio e conforto i miseri e derelitti».

Gli «ultimi» del nostro tempo sono identificati da Olmi nei profughi che arrivano sulle coste italiane fuggendo da situazioni terribili e chiedono aiuto e comprensione. L’extracomunitario, l’immigrato, il clandestino mettono oggi a dura prova la nostra capacità di dimostrarci cittadini del mondo. E se il tessuto politico-legislativo- burocratico appare estremamente incerto, ambiguo, preda di sterili contrasti di piccolo cabotaggio, il richiamo evangelico ha il dovere di elevarsi alto e forte, di gridare il bisogno di un’unica famiglia umana, di ribadire che le porte al Signore sono sempre aperte. Il taglio tutto in interni suggerisce un contrasto tra luce e ombra di bella suggestione visiva. Come il sacerdote protagonista, anche Olmi è stanco, un po’ affaticato, in qualche momento meno lucido. Ma la carica di spiritualità che emana dalle immagini è confortante. E interpella tutti noi.

3 ottobre 2011

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