Il mito nella letteratura italiana

Si sofferma sugli autori del Novecento il quarto volume dell’opera diretta da Pietro Gibellini e curata da Marinella Cantelmo di Marco Testi

Se un tempo la parola «mito» poteva avere un’accezione negativa di nascondimento della verità oggi – grazie anche alla fioritura di studi junghiani e post-junghiani sui simboli e sugli archetipi – ha assunto una valenza positiva. Il mito, secondo gli studi degli ultimi anni, è esso stesso radice, non solo racconto, perché affonda negli abissi dell’uomo, della sua nascita e del suo sviluppo. Va da sé che la letteratura, in quanto anche racconto, è in primo piano nell’elaborazione del mito, e questo quarto volume de “Il mito nella letteratura italiana”, opera diretta da Pietro Gibellini e nello specifico curata da Marinella Cantelmo, ce ne dà la conferma.

Il mito ulissiaco del «multanime» D’Annunzio viene messo a confronto con quello della rinunzia nei crepuscolari nello studio di Alessandro Scarsella, in cui si evidenzia il senso del limite, dello scacco e della morte (la morte per acqua in una pagina di Marino Moretti che richiama un elemento presente nella “Terra desolata” di Eliot, ad esempio). E nel saggio di Simona Micali appare non la distruzione, ma il riuso strumentale del mito classico nei futuristi, come nel caso del centauro, piegato alle esigenze poste dalla modernità. Nel lavoro di Anna Meda si rintracciano gli elementi dell’antica questione del mito pirandelliano del ritorno alla grande madre terra. Qui si pone l’accento su un elemento importante della produzione pirandelliana, cioè l’urto tra la coscienza «borghese» e il persistere di un sostrato mitico che può essere letto solo con l’aiuto della mitografia applicata al simbolismo letterario, in modo tale che giustamente il siciliano possa essere letto come autentico «scrittore di miti» arcaici, che si contrappongono talvolta a quello cristiano, anzi alla lettura ufficiale della Chiesa.

La classicità ha un peso evidente anche in Alberto Savinio, alias Andrea De Chirico, che, nato in Grecia, è autorizzato, come d’altronde il fratello Giorgio De Chirico, a una re-interpretazione del mito ellenico, soprattutto quello di Crònos, che sembra risparmiare l’infanzia per poi presentare il conto alla coscienza della necessità nell’adulto, all’interno di una ricombinazione degli elementi compiuta all’ombra del pensiero di Nietzsche. Non poteva mancare Dino Campana, il poeta legato per statuto al mito, tanto da rimanerne avviluppato e schiacciato. Giustamente Renato Martinoni sottotitola il suo studio «La Chimera di Orfeo», perché proprio il mostro mitologico e il cantore per eccellenza sono al centro del drammatico itinerario poetico dei “Canti orfici”, capolavoro assoluto del Novecento italiano e non solo italiano. Come nota Gibellini in conclusione «l’inquieto sposo di Penelope supera le barriere temporali e le colonne d’Ercole delle lingue nazionali (basti citare l’“Ulysses” di Joyce)»: metafora pertinente di un mito che prolifera e continua la sua opera nonostante i razionalisti a tutti i costi.

“Il mito nella letteratura italiana, IV: l’età contemporanea”, Morcelliana, pp.682

20 luglio 2008

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