Il feto “terminale” e la scelta per la vita

Un convegno al Salesianum dedicato alle famiglie che hanno rifiutato l’aborto e ai medici che le hanno accompagnate di Federica Cifelli

«Ho sentito donne che hanno rinunciato al proprio figlio dire che se potessero tornare indietro lo terrebbero com’è. Devo dire la verità: non ho mai sentito una mamma che ha accolto il suo figlio malato dire: “vorrei che morisse”. Mai. Sono donne che vivono per un respiro, per un sorriso di quel loro grandissimo amore». Non riesce ad essere imparziale, Sabrina Paluzzi. Lei che per il suo terzo figlio ha accolto una diagnosi prenatale che non prevedeva nessuna possibilità di sopravvivenza. Ha lottato, insieme al marito Carlo, alle due figlie, Priscilla e Vivian, e soprattutto insieme al professore Giuseppe Noia, direttore del Day Hospital ostetrico del Policlinico Gemelli, e agli altri medici che l’hanno accompagnata e sostenuta in un cammino «terribile e bellissimo».

Oggi Giona ha due anni e due mesi. Cammina – «anzi, corre», racconta la mamma -, va all’asilo nido. Il 3 agosto scorso ha subito il suo quarto intervento chirurgico e ora può fare una vita pressoché normale: qualche piccola precauzione, nulla di più. «È sereno, sta iniziando a parlottare, è socievole – continua Sabrina -. Ama le sue sorelle, è affettuoso con il suo papà, e ovviamente, adora la sua mamma. Stravede per il mare, non ha avuto paura dell’acqua sin dal primo momento. Ha desiderato camminarci dentro, senza timore. Giona salvato dalle acque». Già, perché proprio l’acqua lo aveva messo in pericolo quando era nel pancione di Sabrina: una ostruzione urinaria che gli aveva compromesso tutto l’apparato. «Per molti mesi, aspettavamo la morte di nostro figlio, ma eravamo in pace, grazie alla fede», prosegue il suo racconto. Poi, l’incontro con il professor Noia, al Gemelli, la lotta contro la paura e il dolore. E la scelta di accompagnare comunque il piccolo che doveva nascere fino alla fine.

«Non siamo stati eroi – tiene a precisare Sabrina -, ma siamo andati avanti giorno dopo giorno nella gratitudine». Lei e Carlo come le altre sette coppie che domenica prossima prenderanno parte al meeting “Figlio di Dio e figlio mio. La famiglia dinanzi al feto terminale”, nella sede del Salesianum di via della Pisana 1111, a partire dalle 8.30. Un’occasione di incontro tra genitori che hanno scelto la vita e i medici che li hanno accompagnati in questo percorso. Uno scambio di esperienze e insieme uno stimolo «soprattutto per gli ospedali cattolici ad accompagnare le famiglie che vivono la gestazione ed eventualmente la nascita di un feto “terminale”, offrendo loro la disponibilità di persone a cui appoggiarsi: psicologi, sacerdoti». Perché nessuno sia lasciato solo ad aspettare davanti a una porta chiusa la notizia di un bambino nato morto.

Se ne parlerà nel corso della giornata di domenica. Ma se ne parla ogni giorno anche sulle pagine web dell’associazione a cui Sabrina e Carlo hanno dato vita, La quercia millenaria, che ha organizzato il meeting insieme al Dipartimento di tutela della salute della donna e della vita nascente del Gemelli. «Sentivamo il bisogno di mettere a frutto tutta l’esperienza maturata nell’arco di quei lunghi mesi», ricordano. Nacque così piano piano l’idea di un sito al quale le coppie potessero essere indirizzate nel momento in cui la loro gravidanza presentava dei problemi. «L’idea era quella di offrire una testimonianza – osserva Sabrina -, invece ben presto è diventato un servizio, bellissimo per noi. Un modo per rendere a Dio quello che ci ha donato, attraverso l’incontro con persone straordinarie, molte delle quali non credenti ma con una religiosità profondissima». Dal sito dell’associazione è possibile anche contattare alcuni tra i migliori specialisti nei campi della medicina prenatale, pediatrica e della chirurgia. In più «abbiamo voluto mettere a disposizione anche un supporto spirituale e psicologico». Tutto per accogliere e dove possibile alleviare la sofferenza. Testimoniando il valore di ogni vita, ma soprattutto «la grande speranza che si racchiude nel dolore di una mamma che accetta di accompagnare fino alla morte il proprio bambino. Rispetto a un aborto, a una gravidanza interrotta, è un lutto molto più dolce da sopportare».

17 novembre 2005

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