“Il cecchino”, riflessione sulla cronaca

Nella pellicola i toni del «polar» vengono assecondati con immagini nervose e incalzanti che raccontano una trama aperta a una riflessione «sull’inesorabile confondersi di bene e male» di Massimo Giraldi

In mezzo a tante accuse che, a ragion veduta, arrivano al cinema italiano di essere fin troppo limitato e autoreferenziale, si collocano alcuni esempi che smentiscono questa tesi. Ai già usciti nei mesi scorsi “La migliore offerta”, girato da Giuseppe Tornatore con un cast internazionale e una prospettiva narrativa ampia, e “Educazione siberiana”, che Gabriele Salvatores ha realizzato nei territori dell’Unione Sovietica per raccontare dolori e desideri di una gioventù senza luogo e senza tempo, si affianca ora “Il cecchino”, una coproduzione tra Francia, Italia e Belgio.

In uscita nelle sale in questi giorni, il film si inserisce in una dimensione allo stesso tempo importante e richiosa, quella del cinema di «genere». Siamo infatti nel pieno del thriller. La storia prende avvio quando, agli ordini del capitano Mattei, la polizia francese sta per arrestare una gang di rapinatori di banche. Succede però che un cecchino appostato sul tetto di un edificio comincia a sparare contro i poliziotti e permette ai banditi di fuggire. Rimanendo uno di loro gravemente ferito, i gangster sono costretti a cambiare programmi e si rifugiano presso lo studio di Franck, medico corrotto, rrmai deciso a riprendere la caccia e a non dare tregua ai fuggitivi, Mattei li incalza senza sosta, creando scompiglio tra inseguitori e inseguiti in una sequenza di progressive, inattese rivelazioni.

Inaspettati emergono infatti legami tra il figlio di Mattei, militare ucciso in Afghanistan, e il cecchino Vincent. Michele Placido, chiamato alla regia, dice di considerare «un onore che sia stata data a un italiano la possibilità di girare un “polar”, un poliziesco di stampo francese. (…) nelle pieghe del racconto – aggiunge – si nasconde il tema dei giovani europei reduci dall’Afghanistan (…). Ho fatto un film d’azione ad ampio spettro, senza appesantirlo con un discorso politico (…)». Si tratta dunque, va sottolineato, di una coproduzione nella quale la parte italiana entra con una incisiva presenza, grazie soprattutto alla duttilità espressiva dello stesso Placido, che dimostra in questa occasione capacità di mantenere i giusti ritmi di tensione e suspense.

I toni del «polar» (una tradizione francese molto solida e radicata nei gusti dello spettatore d’oltralpe) sono assecondati con immagini opportunamente nervose e incalzanti, grazie anche alla presenza di attori di grintosa efficacia. Aperto anche a qualche non secondaria riflessione sull’inesorabile confondersi di bene e male, scavato tra le pieghe di una realtà triste, dolorosa, aspra e qualche licenza di finzione che asseconda la drammaticità narrativa, il prodotto risulta alla fine ben confezionato, in grado di coinvolgere e creare una riflessione dialettica sugli spunti delicati offerti dalla cronaca.

6 maggio 2013

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