«Il caso Kerenes», scommessa di stile

Il film, premiato a Berlino con l’Orso d’Oro, è specchio della mente e del cuore di una nazione e del suo complicato procedere nelle trappole della modernità di Massimo Giraldi

Se in questa parte finale della stagione in testa al box office continuano a esserci film americani di fracassona spettacolarità ma di inesorabile banalità quali “Fast & Furious 6”, e “Una notte da leoni 3”, fa timidamente capolino nelle sale anche un cinema differente e meno accomodante, nei temi, nello svolgimento, nelle psicologie. Bisogna tornare in Europa, in zone più vicine a noi quanto a geografia ma dalle imprevedibili sfaccettature individuali e collettive. Esce nelle sale in questa settimana “Il caso Kerenes”, libera traduzione italiana dall’originale “Child’s Pose” (L’atteggiamento del bambino).

Si tratta di un film di nazionalità rumena, girato tra Bucarest e dintorni dal regista Calin Peter Netzer, premiato con l’Orso d’oro al Festival di Berlino del febbraio scorso. Al centro della storia c’è Cornelia, sessantenne benestante e alto borghese, che ha per l’unico figlio Barbu un affetto totalizzante ed esclusivo. Invano il ragazzo cerca di emanciparsi, e la situazione conflittuale che tiene da tempo con la madre precipita quando resta coinvolto in un incidente d’auto da lui causato poco fuori città: nel fare un sorpasso investe un tredicenne che muore sulla strada. Polizia e avvocati si dedicano alla ricostruzione dei fatti, ma per Cornelia l’unico obiettivo è salvare il figlio da eventuali condanne.

Fino al punto, quando ogni possibilità è stata espletata, di recarsi personalmente dai genitori del morto per implorarne il perdono. Dice Netzer: «Con il mio sceneggiatore abbiamo cominciato a discutere delle nostre vite e dei rapporti con le nostre madri (…). La storia mi è molto vicina e volevo affrontarla in un racconto dall’autenticità quasi documentaristica». La compattezza del racconto e l’ariosità dello stile sono certamente una forte scommessa. Come già nel recente “Oltre la collina” di Cristian Mungiu, anche qui il regista si affida a uno sguardo secco, appuntito, spigoloso; inserendo tuttavia anche pennellate di lirismo aspro e profondo, che raggiunge toni alti nello straziato, ambiguo finale, dove verità e menzogna arrivano a una inesorabile resa dei conti.

Mettendo a nudo la fisicità dei personaggi dentro luoghi e ambienti, Netzer fa emergere il trascolorare delle psicologie dalla certezza alla paura, dipana conflitti morali e doppiezze etiche dalla impossibile convivenza. Il racconto, ostico sotto il profilo narrativo, scorre tuttavia lungo una ricchezza visiva che si fa quasi visionaria nel procedere verso la fine. Siamo di fronte a un «fare cinema» che gioca la scommessa non solo di rappresentare ma di «far vedere», di farsi specchio della mente e del cuore di una nazione, e del suo complicato procedere nelle trappole della modernità.

17 giugno 2013

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