“He is here”, Benedetto canta Claudio Chieffo

Il figlio del cantautore scomparso nel 2007 restituisce all’ascolto contemporaneo quattordici canzoni scritte dal padre, stimato anche da Gaber e Guccini di Walter Gatti

Ma la vita / la vita che voglio / è una vita nuova / una vita che guarda in faccia / alla verità / una vita che non finisce / una vita vera / una vita grande / una vita.

Quando Claudio Chieffo scriveva le sue canzoni, aveva la strana e implacabile efficacia di un cantautore non “fuligginoso”. Autore italiano di fortissima religiosità, il forlivese Chieffo ha sempre chiamato le cose per nome, parlando di amore, amicizia, violenza, ideologia, resurrezione, smarrimento, conversione, cammino, tradimento. Insomma: di vita. Trasparente fino al fastidio, ha sempre cantato di sé con pochissima sovrastruttura poetica e con tantissima lirica della quotidianità, quella che permette di trasformare la carezza nei capelli dell’amata in un gesto donato dal creatore del tempo.

In “Una vita”, canzone magnifica con cui abbiamo aperto queste brevi note, Chieffo confessava:

non voglio perdere tempo, / con chi si ama e si adora, / voglio cercarti ancora, / voglio trovarti ora.

Con un identico tentativo di cercare e trovare semi di verità, uno dei tre figli di Claudio, Benedetto, ha provato a restituire all’ascolto contemporaneo quattordici canzoni scritte dal padre (scomparso nel 2007 a 62 anni) alcune notissime, altre completamente inedite, nel suo primo disco, “He is here”, un lavoro musicale che potrà contemporaneamente far conoscere a molti le canzoni di Chieffo-padre, svelando al contempo qualità vocali e interpretazione schietta di Chieffo-figlio.

Purtroppo, come è noto anche a chi non segue la musica più o meno leggera, molti dei “figli d’arte,” rampolli di musicisti che hanno lasciato il segno, hanno la necessità di confrontarsi con la creatività paterna. L’han fatto Julian Lennon e Ziggy Marley, Cristiano de André e Jeff Buckley, Filippo Graziani e Alberto Bertoli. È un modo più o meno dichiarato di fare i conti con il proprio sangue, con la propria eredità e a volte con la maledizione di essere “figlio”.

Anche Benedetto percorre questa strada, e non c’è nulla di strano (o di negativo) in tutto ciò; ma per fortuna in lui non c’è scimmiottamento dell’arte paterna e soprattutto non c’è tentativo (questo solitamente è il marchio peggiore, quasi patologico) di reincarnarne il carisma. Il giovane Chieffo infatti rilegge l’eredità paterna con fare semplice e rispettoso, vibrante e vivace. Nel disco non ci sono alcuni dei titoli più ovvi (ad esempio “I cieli”oppure “Il signore ha messo un seme” oppure ancora “Il popolo canta la sua liberazione” e nemmeno “La strada”), mentre Benedetto ha avuto l’intuito di pescare anche nelle memorie di famiglia, recuperando nello scrigno dei segreti del repertorio meno noto, alternando arrangiamenti delicati a intuizioni sonore davvero originali.

Così la già citata “Una vita” diventa una ballad elettro-acustica caustica dove si mette sulla bilancia della vita il potere dell’imbecillità e la necessità di non esserne schiavi; mentre una delle canzoni più intense e celebri di Chieffo, “Ritorno”, qui diviene una tesissima interpretazione per voce e pianoforte (“avevo visto chi non posso amare…. Non pensavo ad altro che a tornare”) risultando alla fine dell’ascolto forse la canzone piú interessante, piú magica e struggente, piú umana e stimolante, storia di un ritorno che è del figliol prodigo evangelico, come di tutti i figlioli (noi, i nostri, quelli degli altri, quelli di tutti i tempi e di ogni tempo a venire):

Così mentre ti avevo credetti di impazzire: / avevo visto quello che io non posso amare avevo visto chi non posso amare. / Nel mare dei tuoi occhi vedevo riaffiorare il volto disperato di chi non posso amare avevo visto chi non posso amare.

Nell’album si susseguono una ballata dedicata all’Irlanda (“Irish song”), la più celebre canzone d’amore firmata da Chieffo (“Vorrei”: Quando ti sento cantare io mi nascondo perfino e resto ad ascoltare il tuo canto sereno. È più grande di noi, la storia che viviamo, più grande del mattino che aspettiamo. Quando io sono lontano mi manchi come il silenzio, ma la tua immagine dice mille cose ad un tempo), una scorribanda folkrock come “La nave” (“La storia amico mio, è chi ha inventato il gioco, il primo cerchio di luce che ha disegnato il giorno”) e poi ancora “Sorgente”, la drammatica e liberante “Gloria” (volerà nel cielo senza nuvole, una voce, un canto inconfondibile, i bambini di dio la gloria canteranno liberi, di chi ha fatto la vita e ha dato la speranza agli uomini), “La canzone del melograno”, “I gesti”.

Il disco segue cifre musicali che vivono di arrangiamenti prettamente acustici. Chitarre, oboe e clarinetto, violino e violoncello impastano un suono che s’insinua tra la canzone d’autore, certo folk americano e suggestioni di canzone francese (la quale, ricordiamolo, è stata la prima vera ispirazione dichiarata o implicita di chi scriveva canzoni negli anni Sessanta).

Il tutto si conclude con una festa. Merito di “Abbiamo suonato”, canzone degli anni Sessanta, una delle prime di Chieffo, interpretata come in una festa popolare a metà strada tra la Romagna e i Caraibi: «Il seme è cresciuto e un albero è diventato», dice il testo. Tra un seme e un albero c’è tanto tempo, c’è crescita, c’è durata, c’è natura che fa fiorire, c’è destino che genera quel che deve generare, c’è lavoro, c’è coraggio. C’è un modo di mettere a frutto arte e tecnica, conoscenze e sapienza. E allora viene quasi da chiedere: come mai negli ultimi decenni sono così pochi i cantautori che hanno saputo scrivere canzoni abbarbicati al grande albero della comunità cristiana? Se ci sono (ed è certo che possano e debbano esserci), dove sono?

In una qualche maniera, da qualche parte, c’è una Chiesa viva che stimola una creatività autentica e matura, artisticamente valida e culturalmente “laica”? Chieffo aveva dalla sua un pregio: si faceva ascoltare ed apprezzare da tanti, anche ben al di fuori di una limitata lingua di territorio umano. Noto e stimato anche da Guccini e Gaber (per dirne due di grande statura), aveva un suo spazio nel cantautorato italiano proprio perché era totalmente e potentemente laico, avendo cioè ben voluto sempre evitare il marchio del “cantautore cattolico”, pur essendo totalmente radicato all’interno di un’esperienza viva e vissuta di Chiesa. Ecco, dunque: ci sono cantautori “laici” in grado di parlare da cattolici di vita e peccato, di dannazione e potere, di salvezza e tenerezza, di morte e violenza, senza moralismo e noia, senza tiepidezza e sonnolenza buonista, senza sorrisi di circostanza e melodie melense finto-sanremesi?

Domande che forse dovremmo conservare e forse riproporre. Rimane, oggi, questo disco, di un giovane figlio d’arte, in cui Benedetto si dimostra coraggioso in una sfida a suo modo temeraria: incidere un disco di grandi canzoni nate da una radice umana chiara e indubitabile. Un disco particolare e universale insieme, album che guarda caso prende il titolo, “He is here”, da una canzone profetica di fine anni ’80, che dice:

He is here, / ho nostalgia di quella casa, / dove ho vissuto un giorno / ero bambino allora: / egli è qui come il primo giorno.

Forse avremmo bisogno di altre canzoni che sappiano narrare o anche solo evocare il fatto che «egli è qui, come il primo giorno». C’è nessun altro che abbia il coraggio di scriverlo e metterlo in musica, magari con parole diverse, ma ugualmente forti?

17 luglio 2014

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