«Gravity», la solitudine e l’ignoto

C’è un filo metafisico-spirituale a legare immagini e parole di un film ricco di spunti, inquieto, emozionante, sempre di spiccata sensibilità narrativa e filosofica. Un’opera che forse avrebbe meritato il Leone d’oro di Massimo Giraldi

Cinema d’autore o cinema d’evasione? Sulla attualità della discussione ha portato nuova materia la recente Mostra di Venezia: Leone d’Oro a un documentario (Sacro Gra), molti premi a film di varia provenienza geografica accomunati da un quoziente di difficoltà espressiva altissimo, di tono cerebrale, enigmatico, difficile da seguire e da comprendere. Mentre a inaugurare la stessa Mostra è stato Gravity, interpretato da Sandra Bullock e George Clooney. Film targato Usa, con due soli nomi nel cast e intorno lo spazio. Nelle sale da questo fine settimana, Gravity si muove nell’ambito della fantascienza. A bordo di uno Shuttle c’è un equipaggio ridotto formato dal pilota Matthew Kovalsky e dalla dottoressa Ryan Stone. Dovrebbe essere vicino il momento del rientro, ma qualcosa di imprevisto accade.

I collegamenti si interrompono, i comandi non rispondono, nelle operazioni di spostamento i due finiscono con il restare fluttuanti nell’aria. Ben presto si capisce che Kowalsky e Stone sono gli unici due superstiti di tutto l’equipaggio. Il tentativo di restare uniti risulta oltremodo complicato. Kowalsky si sgancia dalla cintura comune e si perde nella lontananza. Stone riesce a risalire a bordo e a trovare il modo per dirigersi verso una base spaziale cinese. Da quel momento è sola con se stessa. Gravity riesce a scegliere un tema classico dell’immaginario americano e a collocarlo nel nostro disperato, amarissimo ruolo di naufraghi della post-modernità. L’avventura negli spazi sconfinati è uno scenario ineludibile nella mente dell’avventura oltre oceano, un terreno nel quale arrivano alla resa dei conti Male/Bene; Legge/Illegalità; Eroi/Antieroi. Bisogna però dirlo subito: mai come in questa occasione un Uomo e una Donna, lasciati soli con se stessi, affrontano una situazione mai provata prima, quella della solitudine di fronte all’ignoto e quando ogni collegamento è ormai interrotto.

Aggiungeremo, senza togliere niente all’emotività del racconto, che, dopo l’uscita di scena di Kowalsky, Stone regge per intero il peso del soggetto: e qui il fremito della paura, il brivido della solitudine diventano angoscia autentica, vera, calata sulla pelle, capace di entrare nelle vene. Una sensazione di abbandono che chiede alla ragione di fare appello a risorse nascoste, e al cuore di lasciarsi andare alla richiesta liberatoria della preghiera. L’ignoto è in noi, e nel freddo silenzio dell’infinito l’anima si fa riscaldare dalla visione di paesaggi da sogno. C’è un filo metafisico-spirituale a legare immagini e parole di un film ricco di spunti, inquieto, emozionante, sempre di spiccata sensibilità narrativa e filosofica. Un’opera notevole, che forse avrebbe meritato anche il Leone d’oro.

7 ottobre 2013

Potrebbe piacerti anche