Giovanni Paolo II, «santo polacco del Concilio Vaticano II»

Al Centro giovanile GP2 l’incontro con monsignor Piero Marini, per 25 anni accanto a Papa Wojtyla: «Era amabile, umano, e profondamente radicato nella sua terra. Aveva la vocazione ad andare “fuori”» di Lorena Leonardi

«Aveva una cannula nella trachea, un medico lo aiutava a portare a termine ogni respiro. “Padre Santo, preghi per me e per tutta la Chiesa”, gli dissi. E lui volle stringermi le mani. Non so per quanto tempo. Ci sono momenti che il tempo non è in grado di misurare. Quella è stata l’ultima volta che lo vidi vivo, morì il giorno successivo». È solo uno dei tanti ricordi su San Giovanni Paolo II che ieri, 14 maggio, monsignor Piero Marini, presidente del Pontificio Comitato per i congressi eucaristici internazionali, ha condiviso al Centro di aggregazione giovanile GP2, in un appuntamento del ciclo «Il “nostro” Giovanni Paolo II», i cui prossimi incontri si terranno il 28 maggio e il 4 giugno.

Per 25 anni accanto a lui, 7 come cerimoniere e 18 in qualità di maestro delle cerimonie pontificie, monsignor Marini incontrò Papa Wojtyła per la prima volta nel 1973: «Era il tempo della cortina di ferro, e dopo alcuni dibattiti legati ai patroni, i vescovi polacchi invitarono il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, col quale lavoravo, per risolvere la questione. Facemmo il tour di tutte le diocesi polacche, e a Cracovia ci accolse il cardinale arcivescovo Wojtyła. Passai sotto un arco del palazzo, lui camminava davanti a me, indossava un mantello nero. Mi chiese se era tutto di mio gradimento, e mi stupì tanta gentilezza verso un semplice sacerdote. Ma lo stupore – confida monsignor Marini – fu ancora più grande quando l’indomani, durante una celebrazione, mi accorsi che l’omelia di quel cardinale era diversa da quella di tutti gli altri vescovi polacchi. Rimasi colpito dal contenuto biblico, dalla straordinaria vicinanza alla gente e dallo spirito del Concilio sorprendentemente assorbito». Non a caso quando, durante il Concilio, tornava in Polonia, Wojtyła «scriveva lettere pastorali per raccontare ai suoi fedeli quell’esigenza da vivere. Avrebbe voluto un sinodo nazionale, con tappe in tutta la Polonia, perché i vescovi raccontassero il Concilio, ma dovette accontentarsi di farlo a Cracovia, nel ‘72».

San Giovanni Paolo II «poche volte perdeva la pazienza, era gioviale, simpatico, ironico». Come quella volta che monsignor Marini faceva il compleanno nel corso di una Giornata mondiale della gioventù. «“Quanti anni compi?”, mi chiese. “Cinquantaquattro”, risposi. E si voltò. Poi si girò verso di me e disse: “Ma sa che a 54 anni io ero già arcivescovo di Cracovia?”. E si voltò nuovamente. Per girarsi ancora poco dopo e confidarmi: “Ma lo sa, pensandoci bene, che in realtà ero già cardinale?”. Ridemmo assieme: era amabile, umano». E profondamente radicato nella Polonia, la sua terra. «È stato un santo che portava avanti le sue radici, impossibile capirlo senza riflettere sul fatto che era polacco, che ha vissuto il lavoro, il comunismo. Forse per questo amava tanto celebrare Messa all’aperto, lì durante il regime era vietato, per ogni processione occorreva pagare le multe. Lui, invece, aveva la vocazione ad andare fuori dalle parrocchie, dal Vaticano, dall’Italia».

Cuore dei suoi viaggi era sempre «la celebrazione eucaristica con la gente. Così in molti hanno scoperto il sacerdozio universale, ossia il fatto che a celebrare non è solo il prete ma tutta l’assemblea, con la sua cultura, le sue tradizioni». Dovendo “riassumere”, monsignor Marini definisce Papa Wojtyła «un santo polacco del Concilio Vaticano II, e aggiungo “polacco” – spiega – perché ovunque andasse voleva incontrare i suoi conterranei, regalare loro un sorriso, accarezzarli con quelle stesse mani che mi avevano consacrato vescovo e che ho tenuto nel suo ultimo giorno». È legato alle mani anche il ricordo che di San Giovanni Paolo II ha don Maurizio Mirilli, intervenuto a margine dell’incontro: «Era un giorno di maggio del 2004, il giorno della mia ordinazione. Lui, malato, parlava poco. Ero l’ultimo della fila, mi inginocchiai e poggiai le mani sui braccioli della sua poltrona. Lui mise le sue mani sulle mie e le strinse forte, guardandomi semplicemente. Quando mi trovo in difficoltà, io penso sempre a quello sguardo, che diceva “Non devi mai avere paura”».

15 maggio 2014

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