Formare nuove schiere di educatori credibili

di Filippo Morlacchi

Sabato 23 febbraio tutta la diocesi di Roma è chiamata dal Papa in Vaticano per ricevere simbolicamente la Lettera sul compito urgente dell’educazione che il nostro vescovo ha voluto indirizzare alla diocesi. La Lettera sarà anche distribuita capillarmente in tutte le scuole di Roma, statali e cattoliche, di ogni ordine e grado, grazie alla collaborazione degli insegnanti di religione. Se si considerano tutti e tredici gli anni di studio previsti dalla prima elementare (che oggi si chiama “primaria”) fino al termine del curricolo scolastico, gli studenti di Roma sono circa 320mila; gli insegnanti di religione sono circa un migliaio.

Si comprende bene allora perché l’educazione scolastica sia un tema decisivo anche per la nostra città. Ogni giorno a Roma oltre 300mila bambine/i, adolescenti e ragazze/i trascorrono tante ore in classe ad ascoltare – e ancor prima ad osservare! – i loro insegnanti. L’importanza della scuola per la società non deve essere sottovalutata. È certamente vero che i primi educatori dei figli sono i genitori, e che l’alfabeto della convivenza si apprende tra le pareti domestiche. Ma la scuola è certamente il secondo luogo educativo quanto a pervasività e significatività. Ognuno di noi sa perfettamente quanto sia stato rilevante – nel bene e nel male – l’esempio dei nostri insegnanti: prima le maestre delle elementari, poi i professori delle medie e infine quelli delle superiori, tutti – o almeno alcuni – sono stati per noi figure decisive, se non per le cose che ci hanno insegnato (anche quelle, forse…), almeno per l’ascolto che ci hanno prestato, per la possibilità che ci hanno offerto di confrontarci con figure adulte e di transitare laboriosamente dall’ingenuità dell’infanzia alla scoperta delle responsabilità e dell’impegno.

Se poi si confrontano le poche ore di catechismo mensili con le trenta e passa ore di scuola settimanale, e si aggiunge che tutti i ragazzi vanno – più o meno assiduamente – a scuola, mentre solo una minoranza degli adolescenti frequenta gli incontri parrocchiali, risulta chiaro che la scuola è un luogo davvero strategico per l’educazione delle nuove generazioni, forse più ancora delle parrocchie stesse.

Dobbiamo perciò essere profondamente grati al Papa per averci voluto scrivere questa lettera: anche al di là dei contenuti e delle preziose indicazioni che essa offre, mi sembra essenziale rilevare che questa lettera vuole scuoterci dal torpore educativo, dalla sfiducia rassegnata e dal disfattismo remissivo per invitarci a riprendere con lena e serietà il compito educativo anche in questo nostro difficile mondo. Nel mondo della scuola molto può e deve esser fatto dalle istituzioni civili.

Solo pochi giorni or sono Francesco Alberoni ha ricordato che «nessun governo del dopoguerra ha fatto per la scuola uno sforzo simile a quello compiuto all’inizio del secolo ventesimo. Anzi nessun governo l’ha messa nell’elenco delle infrastrutture di base come le autostrade, i porti, l’alta velocità e le centrali elettriche. Ma non si può rimandare oltre». E aggiungeva: «Occorre uno sforzo immenso per ricostruire il prestigio dell’educazione» (Corriere della Sera, 4 febbraio 2008).

In questo contesto anche le nostre comunità ecclesiali sono chiamate a fare qualcosa di concreto per «ricostruire il prestigio dell’educazione». La prima cosa mi sembra quella di riscoprire la professione dell’insegnante come scelta di servizio e – senza paura di esagerare – come vera vocazione. Insegnare è oggi purtroppo considerato più un “mestiere” che una scelta di vita: è un “lavoro” come tanti altri, anzi un mediocre lavoretto impiegatizio, con poche ore di servizio, una magra retribuzione, nessuna significativa speranza di progressione di carriera, occasioni di gratificazione sporadiche e modeste, e all’orizzonte la mitica speranza del posto di ruolo, cioè dello stipendio statale garantito.

Le cose però non stanno così – o almeno non dovrebbero. L’insegnante di oggi, nella “scuola dell’autonomia” è (fatemi usare l’indicativo e non il condizionale…) un vero professionista, “imprenditore di se stesso”, a cui è richiesta una professionalità matura, una capacità progettuale considerevole, un costante aggiornamento pedagogico-didattico, una provata capacità relazione, una solida struttura psico-affettiva. La scuola di oggi, a partire dal DPR 275/99 (Regolamento dell’autonomia scolastica), non si pensa più come “struttura periferica dello Stato”, nella quale i docenti sarebbero tenuti solo a svolgere pedantemente programmi fissati dal Ministero e ad eseguire ordini calati dall’alto. La scuola si pensa come soggetto autonomo, impegnato «nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti», come recita il citato Regolamento dell’autonomia.

Dunque l’insegnante è un professionista dell’educazione, impegnato a raggiungere obiettivi educativi di alto profilo. Che poi questo non corrisponda alla realtà dei fatti, è solo espressione dello scarto inevitabile tra l’ideale e il reale. Sarebbe bello però che le comunità cristiane, che si sforzano di proporre ai giovani la vita come vocazione, aiutassero coloro che si orientano alla scelta universitaria a prendere in più seria considerazione l’ipotesi di diventare insegnante. Farne non una scelta di ripiego per laureati che non trovano sbocco lavorativo migliore, ma un’opzione consapevole, lungimirante, finalizzata al bene comune tramite l’educazione e la formazione delle future generazioni. I nostri figli hanno grande bisogno di persone motivate, che si dedichino a loro con passione sincera e disinteressata, con la voglia di schiudere davanti alla mente e al cuore dei loro alunni le meraviglie del mondo, di educare alla vita e alla responsabilità, di insegnare che il Vero e il Bello meritano di essere cercati con tutte le forze. Persone che scelgano di formarsi seriamente per insegnare – che so? – matematica o lingue, oppure, perché no?, proprio religione.

Ma che lo facciano spendendosi generosamente. Non potrebbe questo essere un vero servizio alla Chiesa e alla società? “Ricostruire il prestigio dell’educazione”, come auspicava Alberoni, formando nuove schiere di insegnanti ed educatori credibili, solidi, adulti, disponibili, competenti, umani, convinti, realizzati. Proprio come anche noi li avremmo voluti… E se ancora li sogniamo così per i nostri figli, forse non è un sogno irrealizzabile. Vogliamo dunque impegnarci a questo fine come Chiesa di Roma. Grazie, Santo Padre, per avercelo ricordato.

15 febbraio 2008

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