Educazione nello stile dei monaci
di Filippo Morlacchi
Non è un mistero per nessuno: il nome scelto da Joseph Ratzinger il giorno della sua elezione rivela una particolare affinità del Pontefice nei confronti di san Benedetto e un profondo apprezzamento del monachesimo in genere. Quando era ancora prefetto della Congregazione della dottrina della fede e poteva organizzare con più facilità gli impegni del ministero, il cardinale Ratzinger amava abbandonare la città per ritirarsi nella quiete dei monasteri (frequentemente visitava l’antica abbazia di Rosano, sulla sponda sinistra dell’Arno) per trascorrere lì alcune ore di sereno raccoglimento, accompagnato dalla preghiera liturgica e dal silenzio del chiostro.
Più volte nei suoi interventi magisteriali ha espresso una viva gratitudine nei confronti del prezioso lavoro svolto pazientemente dai monaci amanuensi per custodire la cultura dell’Occidente, ma ha soprattutto lodato il loro amore per la Verità. Recentemente, nella celebre lezione tenuta a Parigi nel Collège des Bernardins (12 settembre 2008), si è espresso in termini assolutamente chiari: «Non era intenzione [dei monaci”> di creare una cultura e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare.
Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio». E concludeva così davanti agli accademici di Francia: «Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura».
Il rapporto “monachesimo – cultura” non è dunque così strano: la ricerca di Dio è alla base della ricerca della Verità. Dunque anche il legame tra monachesimo e scuola non è poi così bizzarro come potrebbe sembrare a prima vista. In fondo, prima che nascessero le università, il “luogo dello studio” e della cultura era proprio il chiostro. Sorprende quindi solo in misura ridotta che da qualche anno una scuola di Roma sia retta da… monaci e monache!
Correva l’anno 1828 quando la Santa Sede stipulò una Convenzione diplomatica con la Francia per «la Conversione del Convento delle Minime di Trinità dei Monti in un Istituto di Educazione, sotto la Direzione delle Dame Francesi del Sacro Cuore». Così ebbe origine l’Istituto Sacro Cuore di Trinità dei Monti. Attualmente la responsabilità organizzativa della scuola è stata assunta dalle Fraternità Monastiche di Gerusalemme. Le Fraternità sono di recente fondazione (1975). Nel 1996 sono state erette in due Istituti religiosi a carattere monastico, uno maschile e uno femminile.
Monaci e monache hanno abitazione, vita fraterna e governo indipendenti, ma condividono lo stesso carisma: vogliono vivere lo spirito nel monachesimo non nella pacifica solitudine del deserto, ma nel cuore delle città. La regola monastica a cui si ispirano è il “Libro di vita”, redatto da Pierre-Marie Delfieux (il fondatore) a partire dalla Sacra scrittura e dalle tradizione monastiche antiche.
Obiettivo del monaci e delle monache è l’«unificazione interiore» attraverso la preghiera, la vita fraterna ed il lavoro. In città, il lavoro non può essere – ovviamente – il “lavoro della terra”, come di norma avviene nei monasteri, ma un lavoro ordinario, per lo più dipendente e salariato, e svolto a tempo parziale per conservare il primato della preghiera. Così si legge nel Libro di vita: «scegliendo di lavorare quanto occorre, ma non più di quanto è doveroso e non per ciò che è destinato a perire, ma per quello che dura per la vita eterna, di fronte a un mondo in cui il lavoro è come sacralizzato, spesso sproporzionato e diventa luogo dello scontro, della concorrenza, dell’alienazione, della corsa al guadagno, ti devi porre in atteggiamento di libertà e di contestazione».
Con questo spirito, le Fraternità si occupano della scuola, lasciando ai laici l’impegno principale dell’insegnamento, e occupandosi di una animazione spirituale della comunità educante: docenti, alunni e famiglie. Se vi capita di passare dalle parti di piazza di Spagna verso ora di pranzo, almeno una volta salite la scalinata e partecipate alla liturgia delle 12.30 nella chiesa di Trinità dei Monti.
La preghiera corale di monaci e monache vi trasporterà in una dimensione diversa, inimmaginabile e sorprendente nel cuore della concitata capitale. Una preghiera fatta di ascolto della Parola, che insegna l’ascolto delle persone, a cominciare dagli studenti. Una preghiera che di sicuro intercede per gli alunni, ma che si estende alla città intera. Una preghiera che ricorda a tutti che la vera scuola deve servire per la vita (non scholae, sed vitae discimus) e che la vera conoscenza è quella dell’essenziale.
Forse anch’io, come Papa Benedetto, sono un ammiratore un po’ nostalgico del chiostro. Ma immettere nella frenesia della nostra quotidianità un po’ di monachesimo non ci farebbe affatto male. E nella confusione della scuola di oggi, che sperimenta sempre nuove riforme prima ancora di aver verificato l’efficacia delle precedenti, l’arte monastica di concentrarsi sull’essenziale può essere una vera scuola di vita.
21 novembre 2008