E … se ci trovassimo senza petrolio?
Per contrastare lo scenario di uno schock petrolifero, che secondo gli studi di settore è vicino, governi e imprese devono iniziare a impostare delle politiche di riconversione economica per uscire dalla crisi di Fabio Salviato
Immaginiamo che nel pomeriggio di un’estate calda e soleggiata, tutte le trasmissioni televisive e radiofoniche s’interrompano e appaia una scritta: «Edizione straordinaria». Subito dopo, uno speaker con un’espressione cupa e preoccupata, legge un comunicato a reti unificate. Una comunicazione che lascia gli spettatori stupiti, colpiti, impotenti: in pratica le autorità di controllo europee, americane e asiatiche congiuntamente comunicano che il petrolio è finito, non ce n’è più.
In un primo momento molti pensano a uno scherzo, poi la comunicazione trova conferme autorevoli: uno alla volta i vari capi di Stato, da Obama, a Sarkozy, alla Merkel, al nostro primo ministro Monti, confermano la notizia e allo stesso tempo cercano di “tranquillizzare” la popolazione. Improvvisamente le raffinerie non raffinano più il petrolio, le centrali di riscaldamento smettono di funzionare, molte imprese si fermano, la circolazione delle auto diventa sempre più difficile, il mondo intero, almeno quello considerato “industrializzato” si ferma, e le persone non sanno più come trovare soluzioni alternative.
Sembra l’inizio di un incubo, o una fantasia impossibile. In realtà si potrebbe trattare di una realtà, molto più concreta di quello che si possa immaginare. Infatti tutti gli studi di settore concordano sul fatto che il cosiddetto “picco” di utilizzo dell’oro nero è già stato raggiunto, cioè la popolazione del nostro pianeta ha già consumato più della metà del petrolio disponibile, e sempre gli studi di settore, anche quelli più ottimistici, ci indicano che al massimo l’ultima goccia di petrolio sarà estratta entro il 2050. Quindi questa nostra generazione, tra le altre cose, avrà il compito di trovare, anche rapidamente, delle soluzioni rispetto al combustibile che oggi fa girare il mondo.
Questo problema dovrebbe essere una delle priorità dei governi, una delle preoccupazioni delle imprese, grandi e piccole, invece sembra che si stia discutendo molto di sviluppo senza tenere adeguatamente in considerazione questo importante aspetto, cioè come uscire dall’economia del petrolio e come iniziare un percorso di “transizione” verso una nuova economia. Io credo che sia giunto il momento di porci seriamente questo problema, anche perché si parla spesso di sviluppo, ma quest’anno ‘’Italia rischia di avere un decremento del Pil intorno al 4%. Siamo in una condizione di “decrescita infelice”, perché questa decrescita crea sempre più disoccupazione, chiusura di imprese, impoverimento della popolazione. Insomma, l’impressione oramai consolidata è che la ricetta dello “sviluppo” legato semplicemente alla crescita di prodotti e servizi, non funzioni più.
Credo sia importante cominciare a riflettere rispetto a un nuovo modello di sviluppo, tornando alla “fine del petrolio” possiamo citare già oggi importanti risultati. Per esempio, la Germania in questi ultimi 10 anni si è convertita progressivamente alle energie rinnovabili (eolico, solare fotovoltaico, biomasse, geotermico) contribuendo alla creazione complessiva di più di 1 milione di nuovi posti di lavoro, posti che prima non esistevano, e incrementando un’autonomia dal petrolio che oggi equivale a circa il 25% della produzione. La cancelliera Merkel recentemente ha varato un nuovo piano con relativi incentivi, che permetterà alla Germania di arrivare a una produzione da fonti rinnovabili entro il 2050 che coprirà circa l’80% del fabbisogno, il resto potrà essere coperto con il metano.
Questa è la sfida che anche il nostro ministro allo sviluppo dovrà saper cogliere, cioè quella di immaginare non solamente un ipotetico incremento della produzione, ma anche capire che per uscire da questa crisi ci vogliono nuove ricette, ci vuole un piano di riconversione che sappia rimettere al centro la risposta a bisogni di un’economia reale. Un’economia che sviluppi un’agricoltura biologica, riconverta un patrimonio immobiliare fatto di 20 milioni di alloggi che consumano molta – troppa – energia, di un patrimonio ambientale e culturale che va rilanciato. Un programma energetico che va fortemente spinto a sostegno delle rinnovabili.
Insomma abbiamo la necessità di impostare, da subito, politiche di “riconversione” capaci di immaginare un cambiamento, anche radicale, della nostra economia e naturalmente di pensare che rispetto a questo nuovo modello di sviluppo sia altrettanto importante immaginare una finanza sostenibile, etica e solidale capace di dare credito, cioè dare fiducia, sostegno e gambe a questa fase di transizione, a mio avviso oramai improrogabile.
Il pericolo sta tutto qui: se continueremo a prorogare una fase di cambiamento e ci affideremo alle “solite ricette”, lo scenario di uno shock petrolifero potrebbe essere verosimile, e questo comporterebbe una fase di transizione molto travagliata e difficile che coinvolgerà tutta la nostra società.
16 aprile 2012