Dove sta andando la scuola superiore?

di Filippo Morlacchi

È purtroppo innegabile che la scuola superiore – come illustrato la volta scorsa – non naviga in buone acque. Secondo l’Istat, il 48,2% della popolazione italiana in età compresa tra i 25 e i 64 anni (quella considerata operativa ai fini lavorativi) ha conseguito soltanto il titolo di studio della ex “scuola dell’obbligo”, cioè la terza media. E la situazione migliora solo in parte se si considerano i più giovani, cioè quella fascia d’età che, per ragioni anagrafiche, avrebbe dovuto frequentare maggiormente le scuole: tra i ragazzi di età compresa tra i 20 e 24 anni, ancora ben uno su quattro non ha titolo di studio superiore. Più di uno studente su dieci poi lascia la scuola al primo anno delle superiori, con picchi negativi al Sud (15,2% in Sicilia, 14,1% in Campania), ma anche in Val d’Aosta (11,7%). Insomma, non solo i nostri ragazzi a scuola ci vanno poco, ma – per un motivo o per l’altro – spesso se ne vanno via prima del tempo. Non riescono a vivere la scuola come un luogo che li appassioni, li faccia crescere, li prepari alla vita.

Certo, probabilmente nessun ragazzo è tanto maturo da andare volentieri a scuola senza qualche minaccia o qualche incentivo; come – del resto – ben pochi adulti andrebbero ogni giorno al lavoro senza l’incentivo dello stipendio o la minaccia di incorrere in qualche sanzione. Il problema è che la scuola spesso non viene più percepita come un luogo educativo: né dagli studenti, né dalle famiglie, né dai docenti. E forse – «esse est percipi», diceva G. Berkley – davvero non riesce più ad esserlo. Tanto che qualcuno ha affermato che «è inutile che si sforzi di esserlo»: la scuola dovrebbe solo informare, offrire contenuti culturali, plasmare le menti e non altro.

Questo tipo di approccio però oggi è considerato del tutto inadeguato: si è capito che in classe non arrivano solo le menti, ma le persone tutte intere. E perciò gli insegnanti sono tenuti a essere anche educatori, chiamati ad entrare in contatto con le diverse personalità degli studenti, con i loro interessi, le loro potenzialità e le loro aspirazioni per promuovere in loro un cammino di crescita integrale. Se – come abbiamo messo in luce l’altra volta – gli insegnanti non devono “fare le infermiere”, d’altro canto non devono neppure essere eruditi sofisticati o raffinati accademici. Devono piuttosto confrontarsi con la realtà concreta degli studenti, che spesso non corrisponde granché agli ideali di perfezione da loro sognati, e lavorare su tutti i livelli: culturale, ma anche umano, relazionale, motivazionale, ecc.

In un recente incontro fra insegnanti di religione con una certa esperienza sul campo, uno di loro ha voluto condividere questa riflessione, raccolta da un vecchio padre domenicano: «L’insegnante giovane insegna spesso più di quello che sa; l’insegnante un po’ più consapevole insegna tutto quello che sa; l’insegnante maturo insegna solo quello che l’alunno può effettivamente apprendere, e fa in modo che lo impari». E perché l’apprendimento si realizzi, bisogna che l’alunno consideri il suo insegnante un vero “maestro” , cioè «uno che ha qualcosa da dire», «uno che è bene ascoltare».

Senza un’adeguata stima dei docenti l’apprendimento è scarsamente motivato, dunque scarsamente efficace. Il problema è che mentre fino a qualche decennio fa la stima nei confronti dei docenti era garantita di default, oggi non è affatto scontata, anzi va conquistata sul campo. Nelle prime ore di lezione un docente si gioca molta della sua credibilità e gran parte del successo del lavoro di un anno.

Questo significa che, oggi molto più di prima, non può esistere buon insegnamento senza una buona relazione tra docente e alunni. In altre parole, non si realizza una qualificata professionalità docente senza la cura per un vero rapporto educativo, nel quale i ruoli restino ben distinti, e tuttavia la comunicazione personale ed emotiva sia tenuta in alta considerazione. Non ci può essere istruzione senza educazione: non c’è comunicazione di contenuti disciplinari se non all’interno di una più ampia relazione interpersonale.

Per questi motivi lo scorso 19 aprile l’Ufficio Scuola del Vicariato ha organizzato il terzo Convegno dei docenti cattolici del Lazio, invitando a intervenire dinanzi a una folta platea di docenti di tutte le discipline alcune realtà ecclesiali impegnate nel mondo della scuola mediante progetti che, rispettando le finalità della scuola e le modalità di attuazione previste dalle normative, intendono valorizzare anche la dimensione educativa. «Educare alla disciplina attraverso le discipline» era una delle idee guida del convegno, cioè educare la persona attraverso i contenuti scolastici: questo è l’obiettivo di una scuola che voglia essere all’altezza del suo compito. Hanno esposto la loro esperienza educativa nel mondo della scuola: Agesci, Comunità di Sant’Egidio, Azione Cattolica, Movimento dei Focolari, Centro Sportivo Italiano, Acli, ma anche altre realtà come la Caritas Diocesana, il Centro per la Formazione ed Educazione della Sessualità e le associazioni professionali attive nella scuola (Aimc, Uciim, Diesse).

Ne è uscito un quadro un po’ più confortante di quanto di solito non si faccia quando si parla della scuola: sono ancora tante, infatti, le persone che si impegnano generosamente ad aiutare gli adolescenti a trovare qualche punto di riferimento valido e credibile. Il convegno mirava a valorizzare le esperienze positive che già sono in atto, per condividere il know-how di chi è riuscito a fare qualcosa di valido, in modo da restituire un po’ di fiducia ai docenti e a tutti coloro che lavorano nel campo dell’educazione. È anche questo un modo concreto per «educare alla speranza», come la diocesi di Roma, fedele alle indicazioni del suo vescovo Benedetto XVI, si propone di fare.

9 maggio 2008

Potrebbe piacerti anche