Disagio mentale, sos dalle famiglie

Dramma quotidiano in migliaia di case. L’appello lanciato familiari e associazioni per un sostegno effettivo e concreto di Massimo Angeli

L’ultima tragedia si è consumata poco prima di Natale nel quartiere Alessandrino, dove un padre, esasperato dai problemi psichiatrici del figlio, ha ucciso lui, la moglie e infine si è tolto la vita. Pur senza raggiungere ogni volta questi livelli, a Roma sono migliaia le famiglie che convivono con il dramma della malattia mentale.

Iolanda Scolastici, 72 anni e due figli malati di mente, chiede aiuto da una vita. «Ormai non ce la faccio più a reggere questa situazione – confessa -. Il minore, di 41 anni, non vuole prendere i farmaci e quando va in crisi è capace di spaccare tutto. Sono finita in ospedale due volte. Al Centro di salute mentale si rifiuta di andare e loro non si spostano – continua -. Alla mia età è terribile non avere nessuno che ti dia una mano». Irretite nel vuoto istituzionale, nella carenza di servizi e nei pregiudizi della gente, le famiglie e le associazioni di volontariato hanno salutato con gratitudine le parole rivolte da Papa Benedetto XVI agli amministratori locali, ricevuti in udienza lo scorso 12 gennaio, quando ha domandato loro «attenzione» nei riguardi della malattia psichiatrica «anche per non lasciare senza aiuti adeguati le famiglie».

«Il grande problema che viviamo è come curare chi non vuole essere curato – lamenta Maria Luisa Zardini, presidente dell’Arap, Associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica -. Spesso ci troviamo a gestire un malato che non è consapevole della propria malattia, che rifiuta le cure e che diventa aggressivo. A questi problemi la legge 180 non dà risposte, per questo pensiamo sia giunto il momento di mettervi mano. Possibile che dal ’78 non si avverta il bisogno di modifiche? Se fosse qui Basaglia (l’ispiratore della 180) avrebbe già cambiato questa legge, diventata un vero e proprio tabù». Anche a un esame sommario il mondo della salute mentale risulta invischiato in un duopolio perverso: da una parte il servizio pubblico, ridotto a svolgere attività meramente ambulatoriali e a gestire le situazioni di crisi (i trattamenti sanitari obbligatori); dall’altra il privato, sia convenzionato che apertamente abusivo, a gestire l’attività della media e lunga degenza, senza che il tutto riesca ad offrire certezze e tranquillità ai familiari.

«Il problema non è cambiare la legge ma attuarla – interviene Gisella Trincas, presidente nazionale dell’Unasam, Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale -. La 180 e il “Progetto obiettivo per la salute mentale” del 1999 danno delle indicazioni che dovevano essere attuate in sede regionale. Dove questo è stato fatto abbiamo situazioni che funzionano, dove sono state disattese le cose vanno male». Per il presidente dell’Unasam servono comunque «risorse finanziarie certe per realizzare Centri di salute mentale aperti 24 ore su 24; servizi ospedalieri di diagnosi e cura in grado di far fronte tempestivamente a tutte le richieste di ricovero urgente o volontario; piccole strutture residenziali (comunità terapeutiche e comunità alloggio) in cui le persone possano intraprendere percorsi di ripresa e di emancipazione; sostegno forte e adeguato alle famiglie». Sostegno che, tradotto in pratica, significa destinare alla salute mentale almeno il 5% della spesa sanitaria (adesso siamo fermi al 2,5%, mentre il Lussemburgo vola al 13% e la Germania al 10), assumere i 7mila operatori che ancora mancano e organizzare risposte di vicinanza alla famiglia. Senza dimenticare la prevenzione e la diagnosi precoce, da attuare con le scuole e i medici di base.

22 gennaio 2006

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