De Rita: «Recuperare la coesione sociale»

Il presidente del Censis interviene sui temi del lavoro, dei giovani e della violenza, invitando a recuperare il valore dei luoghi d’incontro: la piazza, il sagrato, i quartieri. Puntando sulla responsabilità civile di Angelo Zema

Tornare ai luoghi d’incontro, «nelle piazze, sui sagrati delle chiese, alle borgate vive per un nuovo slancio collettivo. Solo da lì può ripartire la coesione sociale». È lo sguardo sul futuro di Giuseppe De Rita, presidente della Fondazione Censis. Studia e analizza l’Italia – e Roma, che conosce come le sue tasche – da oltre 40 anni con il Censis, che ogni anno sforna un articolato Rapporto sulla situazione sociale del Paese. Con lui parliamo dei grandi problemi di Roma e di come è cambiata. Nella città e nell’Italia degli ultimi anni De Rita individua due “molle”, «una forte soggettività – pensiamo alla soggettività d’impresa – e soprattutto una “cetomedizzazione” forte. Nel 1951 l’Italia aveva il 54% di popolazione agricola, a fine anni ‘70 il ceto medio superava l’80%. Roma ha vissuto soprattutto il secondo aspetto, con un ceto impiegatizio, inerte. Questo ha fatto sì che la città non fosse governata. Una città si governa se c’è un ceto medio forte, una classe dirigente responsabile dei problemi collettivi. Questo è stato un problema sottovalutato».

La disoccupazione giovanile è altissima, il precariato è diffuso. Abbiamo un primato a livello europeo di ragazzi che non studiano e non lavorano. Come si può avviare a soluzione questa distorsione?
Partiamo da un fatto, la presenza di immigrati in alcuni spazi una volta occupati da italiani: nei servizi alle persone, nella ristorazione, ma anche nell’imprenditoria, pensiamo al settore edile. Dall’altro lato a Roma abbiamo un numero di università alto, che forma persone prive di un collegamento con il mondo del lavoro. Abbiamo migliaia di laureati in comunicazioni di massa, e pochi in chimica, in fisica, in matematica. C’è la moltiplicazione di uno studio generico che toglie dalla possibilità di fare un lavoro manuale, o di livello medio-basso. Il risultato è che si è destinati al precariato, in una società come quella romana che vive soprattutto di lavoro dipendente. Il precariato è ormai una strada per entrare nel mondo del lavoro, e crea così tanta sofferenza nei giovani e nelle famiglie che fatichiamo a rendercene conto. Ma la causa deriva dalla scelta di un percorso formativo generico, senza risultati sul piano pratico.

Diceva che i lavori manuali sono sempre meno appetibili. C’è un rischio in questa sottovalutazione?
Se si perde il gusto del lavoro manuale, si perde un patrimonio essenziale per la società, in particolare quella italiana che ha avuto nell’artigianato una componente fondamentale. Se si considera di serie B uno dei punti di riferimento della cultura italiana, allora tutto diventa di serie B.

Pierluigi Celli, due anni fa, pubblicò su un quotidiano una lettera a suo figlio in cui di fatto lo invitava a lasciare l’Italia per trovare lavoro. Andare all’estero è una scelta da consigliare?
Direi di no. Dei miei nipoti solo uno è andato all’estero, in Inghilterra, ma perché aveva il gusto di imparare. L’importante è che i giovani sappiano bene ciò che vogliono. Bisogna essere consapevoli che la costruzione del futuro non si fa semplicisticamente.

Tra le categorie maggiormente in difficoltà ci sono gli anziani, specie quelli non autosufficienti. Il peso dell’assistenza ricade sulle famiglie. Ma questa sorta di “welfare familiare” non rischia di entrare in crisi a causa dei cambiamenti intervenuti nella vita e nella struttura delle famiglie?
Certo. È un argomento da rivedere alla radice. In un recente dibattito con il presidente dell’Inps, lui ha accennato la possibilità che in futuro l’Inps possa occuparsi della non autosufficienza. Significa che il mercato c’è, e non sappiamo da chi sarà coperto. Dalla famiglia, come ora, dalle strutture pubbliche come l’Inps o dalle assicurazioni?

Nel Rapporto Censis 2011 sulla situazione sociale del Paese si legge che «germi di tensione e di conflitto potrebbero essere incubati nel prossimo futuro». L’«inverno caldo» è già iniziato con queste proteste sulle liberalizzazioni?
Non mi sembra che da queste proteste possano nascere vere tensioni sociali. Tra l’altro, non sono d’accordo che il mercato possa risolvere tutti i problemi, ma se credessi nel mercato direi comunque che questi provvedimenti sulle liberalizzazioni creano solo un impoverimento di alcuni dei ceti toccati. Faccio un esempio: se sono un tassista e sono in fila con altri 30 colleghi, e so che fra tre giorni arrivano altri tre colleghi, non si è fatto più mercato, ma si è creato un impoverimento di noi trenta che eravamo in fila.

“Roma città violenta”, è stato detto: 38 omicidi in 13 mesi. Qual è la sua valutazione su quest’esplosione di violenza e sulla percezione della gente?
Certo, più i media pompano un fatto, più la gente pensa che sia uno spettacolo. Con questo non voglio negare il problema. La mia impressione è che ci siano alcuni cicli: abbiamo vissuto la violenza albanese, poi quella romena… adesso c’è una violenza diffusa, e i romani ancora non sanno cosa hanno di fronte, se non paginate di giornali sull’argomento.

Quale impegno possono attuare la comunità civile e le agenzie educative sul fronte della prevenzione?
Roma è come un camino, porta verso l’alto. Pensiamo a tante Fondazioni che si impegnano nella ricerca, alle università… Nessuno dice: mi occupo di Roma. Lo dico da romano, ma tutti noi ci sentiamo élite nazionale, non élite di questa città. E la cosa si avverte a più bassi livelli, dove però non c’è la responsabilità civile per farsi carico di impegni come questi.

La perdita della coesione sociale, la difficoltà delle relazioni sono sempre più evidenti. Come recuperare un nuovo slancio collettivo?
Ricordo il febbraio 1974: la maggiore coesione sociale la trovammo nei borghetti, il Borghetto Latino, il Borghetto Prenestino. Non c’era nella parte impiegatizia che stava crescendo in città. A Roma è rimasta solo questa dimensione. Occorre allora tornare al territorio, alla piazza, al sagrato, al rifacimento dei quartieri. Penso ad esempio a come è stato progettato l’Auditorium: un “paese”, con la libreria, le sale, il pattinaggio… Nel dormitorio invece non ci sarà mai coesione sociale, e Roma è una città “dormitoriale”. Bisogna recuperare la coesione tornando ai luoghi di incontro.

30 gennaio 2012

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