Al Manzoni in scena un Molière siciliano

Nella sala di via Monte Zebio l’opera del commediografo francese “La scuola delle mogli” tradotta nel dialetto siculo. Sulla scena Enrico Guarneri e Patrizia Pellelgrino di Toni Colotta

Giusto un anno fa dedicammo il nostro spazio allo spettacolo tutto siciliano del gruppo Al Massimo che riportava alla luce della ribalta del Teatro Manzoni un testo celebre nella tradizione dialettale dell’isola, “L’aria del continente” di Martoglio. Protagonista sulla scena la coppia Patrizia Pellegrino-Enrico Guarneri. Era una meritoria impresa che valorizzava la letteratura «di casa» in un linguaggio, il vernacolo siculo, aperto ad aspetti sociali riferibili all’attualità.

Ancora nella sala di via Monte Zebio lo stesso gruppo, invariato nel cast, dà corpo ora ad una operazione apparentemente bislacca e invece attentamente meditata: nientemeno che Molière, quello del grande classico “La scuola delle mogli” del 1662, tradotto nell’idioma della Sicilia di oggi. Il proposito è rispettabile, come spiegato dagli stessi trascrittori: «Attraverso una rilettura in siciliano, attenta a non intaccare la struttura della commedia, i personaggi acquistano una nuova linfa che si inserisce nel solco che la grande tradizione teatrale siciliana ha percorso anche attraverso la traduzione in dialetto dei classici dei grandi drammaturghi di ogni tempo».

Ma non si tratta di un meccanico ricalco di battute, se si pensa a sotterranee affinità che accomunano il capolavoro di Molière e vaghi sentimenti diffusi nel costume al di là dello Stretto. Come vediamo sulla scena, a escogitare “La scuola delle mogli” è Arnolfo, un borghese quarantenne: la sua ossessione di dovere un giorno portare le corna (ecco l’affinità) lo induce a coltivare in casa una pupilla, addestrata fin dalla tenera età alla vita virtuosa. Non vuole plagiarla, in fondo l’ama e vorrebbe farla sua sposa. Ma Cupido porta all’attenzione della fanciulla un giovane spasimante, da lei riamato. Quel che è peggio, Arnolfo, all’oscuro dell’idillio, paradossalmente incoraggia il giovanotto. Ne esce sconfitta così la sua pretesa moralistica di plasmare una sposa sottomessa. Tutto questo ha risvolti tragici che fanno grande l’umanesimo molièriano, in bilico fra ridicolo e disperazione. Calare questa vicenda in un ambiente e linguaggio dei nostri tempi, per giunta dialettale, può far sobbalzare i puristi del «verbo» originale. Ma i precedenti non mancano.

L’indimenticabile Mario Scaccia, paladino di Molière, allestì e interpretò “La scuola delle mogli” datandola per scene e costumi nel primo ’900, e il senso della commedia non ne risultò alterato. Un’altra operazione di riscrittura accostabile a quella in scena al Manzoni è degli anni ’70 e portava la firma di Pier Paolo Pasolini che tradusse Plauto in romanesco: dal “Miles gloriosus” a “Il vantone” il poeta e filologo friulano recuperava il colore «sanguignamente plebeo» che era nell’originale. Dunque accostiamoci al Molière siculo senza pregiudizi. Le repliche fino a domenica 19.

13 febbraio 2012

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