Accompagnare la sofferenza

Villa Speranza, l’hospice dell’Università Cattolica di Roma: professionisti e volontari accanto al malato terminale di Massimo Angeli

Formazione in cure palliative, associazione all’avanguardia di Massimo Angeli

Un pianoforte nell’angolo della vasta sala d’attesa è l’ultima cosa che ti aspetti di trovare entrando in un “hospice” per malati terminali. Ma anche dove la vita affronta la sua ultima stagione ogni attimo di tempo ha un valore immenso. «Abbiamo iniziato questo progetto in punta di piedi, ma quel salone che guarda ai tigli del giardino è il nostro laboratorio delle emozioni», spiega la dottoressa Adriana Turriziani, radiologo e primario dell’hospice Villa Speranza, la struttura sanitaria per malati oncologi dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il 23 dicembre, la Scuola popolare di musica di Monteverde vi ha tenuto un concerto di musiche natalizie, ed il prossimo 10 febbraio, in occasione della Giornata mondiale del malato, un altro concerto sarà offerto dagli studenti di medicina della stessa Università. «Gli “hospice” sono destinati ad acquisire un valore sociale crescente e noi vogliamo che sia fino alla fine un “centro di vita” – prosegue la dottoressa Turriziani -. La musica avvicina a Dio, libera le tensioni, e noi con essa vogliamo regalare gioia, così come con la poesia o la letteratura».

Trenta posti letto residenziali e 60 in assistenza domiciliare nel territorio della Asl Roma E (Pineta Sacchetti, Boccea), Villa Speranza ospita malati oncologici la cui malattia non risponde più a trattamenti specifici e per i quali vengono attuate le «cure palliative». È questa una pratica medica tesa ad alleviare il dolore e tutte le sofferenze, non solo fisiche, ma anche emozionali, sociali e spirituali, del malato e della sua famiglia. Psicologi, terapisti della riabilitazione, assistenti spirituali e volontari compongono l’équipe che affianca medici ed infermieri nella cura del malato. «Scontiamo ancora un certo ritardo rispetto agli altri Paesi europei, ma, con una serie di decreti che si sono succeduti dal 1998, la medicina palliativa è arrivata far parte dei Livelli Essenziali di Assistenza e possiamo guardare con più ottimismo al futuro – dice ancora la Turriziani -. Nel Lazio, grazie ad un modello flessibile, il cittadino con l’aiuto dello specialista può anche scegliere se essere curato a domicilio o in una struttura residenziale come questa».

All’inizio del percorso terapeutico c’è un colloquio con la famiglia per conoscere lo stile di vita e la storia oncologica del paziente, valutare le aspettative della terapia, esaminare la situazione logistica domiciliare. Tra i requisiti per la presa in carico del malato, un’aspettativa di vita inferiore ai tre mesi e, per l’assistenza domiciliare, una presenza familiare di riferimento. Dai 5 ai 6 giorni il tempo di attesa per entrare nell’ “hospice” e 2 o 3 per ricevere l’assistenza domiciliare.

«Per quanto mi riguarda il problema maggiore di questo lavoro è di riuscire a curare la sofferenza esistenziale delle persone – confessa la Turriziani -. I malati, ma anche le famiglie, hanno bisogno di affetto, disponibilità, ascolto. Ci vuole molto allenamento per gestire tutte queste dinamiche, ma le cure palliative, mettendo sempre al centro la persona e la sua qualità di vita, possono fare molto per i malati». Anche riguardo al tema dell’accanimento terapeutico, al centro delle cronache di questi giorni, la dottoressa ha le idee chiare. «Siamo quasi sempre noi a dire no alle cure sproporzionate – spiega -. L’accanimento terapeutico è un concetto differente nel medico, nel paziente e nei familiari. Se c’è fiducia reciproca, il percorso terapeutico si sceglie insieme. Ogni caso è diverso dall’altro e, se rispettiamo la persona e siamo onesti nel dare le cure necessarie, bastano la scienza e la coscienza del medico per scongiurare il pericolo di un accanimento della terapia».

«Otto anni fa ho usufruito del lavoro di questa équipe per mia suocera, e conoscendoli da vicino ho deciso di dare una mano anch’io – racconta Franco Mozzetti, coordinatore dei volontari di Villa Speranza -. All’idea della morte non ci si abitua mai, ma tutti noi veniamo da un percorso che ci fa concepire la morte in maniera più naturale di quanto non avvenga in certi ambienti, dove si sfugge anche il solo parlarne. Spesso incontriamo persone che, per vissuto particolare o perché vengono da lontano, sono del tutto sole – continua Mozzetti -. Da tutti abbiamo imparato qualcosa e tutti ricordiamo per qualche motivo particolare. Quella vecchietta arrivata da una casa di riposo che aspettava con ansia il nostro arrivo e che ci regalava sempre delle caramelle, oppure quel signore che aveva trasformato la camera in una stanza di casa sua, con tanto di computer e quadri appesi alle pareti, perché pensava che la vita è bello viverla fino alla fine».

28 gennaio 2007

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