A tavola con l’opera. A colloquio con Enrico Stinchelli

L’autore e conduttore de “la Barcaccia” cura la regia di “Cavalleria rusticana” presso il ristorante “Le Maschere”, dove una serie di serate sarà dedicata alla musica di Francesco d’Alfonso

Metti una sera a cena di trovarti in un ristorante nel centro storico di Roma, tra Largo Argentina e Campo de’ Fiori. Metti di trovarti davanti a un menu tipicamente mediterraneo e, iniziando a degustare panelle e pesce spada, le tue orecchie sentono la siciliana che apre “Cavalleria rusticana” di Pietro Mascagni. Poi si materializza un coro, in carne e ossa, che canta «Gli aranci olezzano sui verdi margini…». No, non è la scena di un film. È quello che il 27 settembre succederà al ristorante “Le Maschere”, in via del Monte della Farina, dove l’opera lirica e la gastronomia si mescoleranno magicamente per dare il via a una serie di serate tematiche dove il gusto e l’olfatto, la vista e l’udito si uniranno in un gioco di consonanze in grado di generare un’armonia perfetta di suoni e di sapori.

Personalità artistiche come Rossini, geniale compositore ma anche raffinato cuciniere, legato visceralmente alla musica ma anche ai piaceri del palato, devono avere ispirato al tenore Sergio Petruzzella, cantante di professione e cuoco per passione, l’idea di rilevare un locale che sorge (che coincidenza…) sulle rovine del Teatro di Pompeo, che risale al 60 a.C.

«C’è qualcosa nell’aria che induce a fare arte all’interno di questo luogo», afferma Enrico Stinchelli, eclettica personalità artistica, autore e conduttore de “La Barcaccia”, programma cult per i melomani, che cura la regia del capolavoro mascagnano all’interno del ristorante. «I tavoli sono sistemati alla maniera rinascimentale, a ferro di cavallo – spiega il musicologo romano – in modo che il pubblico seduto possa osservare tutto ciò che avviene nella “zona palcoscenico”: sembra di stare nella piazzetta di Vizzini, il paese natale di Verga, dove è ambientata “Cavalleria rusticana”».

Opera e gastronomia, dunque. Un connubio possibile se consideriamo la gastronomia una forma d’arte assolutamente nobile: e la mente ci vola ai tempi gloriosi del melodramma, quando anche un piatto di pasta con le melanzane veniva magnificato facendone il paragone con la “Norma” di Vincenzo Bellini. E Stinchelli, amalgamando i vari ingredienti dell’arte, è categorico: «Opera e gastronomia sono due strade parallele: non si può avere un gusto legato all’estetica, al colore, o anche al sapore, che non sia strettamente legato al colore delle note, alle armonie. Io direi che pittura, gastronomia, musica sono strettamente connesse tra loro. Basta osservare un quadro e si vedrà un “impasto” di colori, di sapori, degni di un buon piatto o di una grande sinfonia».

E non ci si stupisca se, in un periodo storico di vacche magre per la cultura, in cui molti Teatri sono sull’orlo della chiusura, tante personalità artistiche di rilievo sono ben liete di incentivare iniziative come quella del ristorante romano, che ribalta l’antica usanza di utilizzare i palchi del teatro per ricevere, per mangiare, per condurre una vita sociale degna del “noblesse oblige”. Ma nell’era contemporanea, dove l’opera non è più consuetudine e forse nemmeno la buona cucina, appare straordinaria «l’attenzione che viene data alla qualità del cibo e alla ricercatezza dei piatti – racconta un entusiasta Stinchelli – pari a quella che viene data allo sviluppo dell’opera, alla sua drammaturgia e alla sua esecuzione musicale». Infatti l’esperienza è assolutamente nuova: perché un conto è cantare all’interno di un locale, cosa che avviene spesso; un conto è confezionare all’interno di un ristorante uno spettacolo a tutti gli effetti. Anche se «a Roma, nel famoso ristorante di Trastevere “Meo Patacca”, le canzoni romane sono state “stornellate” in passato anche da illustri cantanti lirici come Leo Nucci – confida Stinchelli –. Si può dire che la carriera del grande baritono iniziò lì: con i soldi che guadagnava si pagava le lezioni di canto con il famoso maestro Piervenanzi».

Solo Euterpe, musa della poesia lirica, è in grado di suscitare questa suggestione: gli avventori si trasformano in spettatori e gli spettatori in avventori. Infatti Enrico Stinchelli racconta delle prove come di uno spettacolo nello spettacolo, in cui gli ignari clienti del ristorante ascoltano le arie dell’opera diventando parte integrante dello spettacolo stesso. «Bisognerebbe fare come Ingmar Bergman con “Il flauto magico” e far girare una telecamera che riprende le facce, gli occhi, le espressioni di questo pubblico di fronte a una “Cavalleria rusticana” così ravvicinata. Questi signori fotografavano, si avvicinavano ai cantanti, quasi partecipavano all’azione scenica: un misto tra “Prova d’orchestra” di Fellini e “Il flauto magico” di Bergman».

Far girare una telecamera, appunto. O aprire un sipario. O apparecchiare una tavola. Tenendo ancora una volta presente l’estro di Gioacchino Rossini, che chiosa la vita dell’uomo attraverso annotazioni musicali e gastronomiche: «L’appetito è per lo stomaco ciò che l’amore è per il cuore. Lo stomaco è il maestro di cappella che governa ed aziona la grande orchestra delle passioni. Lo stomaco vuoto rappresenta il fagotto o il piccolo flauto in cui brontola il malcontento o guaisce l’invidia; al contrario lo stomaco pieno è il triangolo del piacere oppure i cembali della gioia. Quanto all’amore, lo considero la prima donna per eccellenza , la diva che canta nel cervello cavatine di cui l’orecchio s’inebria ed il cuore viene rapito. Mangiare e amare, cantare e digerire: questi sono in verità i quattro atti di questa opera buffa che si chiama vita».

24 settembre 2010

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