Proposta Caritas da Lampedusa: corridoi umanitari per i profughi siriani
Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio nazionale immigrazione, espone le possibilità concrete d’intervento. Tra queste, l’apertura di un centro Caritas permanente nell’isola di Patrizia Caiffa (Agenzia Sir)
«Non fermare il dibattito politico solo al livello della legislazione sull’immigrazione, perché c’è una questione più urgente. Chiediamo che tutte queste morti non siano invano, perché avvenga un cambiamento utile e necessario: rivedere l’intero approccio europeo e italiano all’accoglienza di chi fugge da guerre e persecuzioni e predisporre dei corridoi umanitari, soprattutto per i profughi siriani, distribuendoli nei vari Paesi europei». È questa la posizione della Caritas italiana, espressa al Sir da Oliviero Forti, responsabile dell’ufficio nazionale immigrazione, che da Lampedusa – dove sono riuniti in questi giorni 40 rappresentanti di tutte le Caritas della Sicilia – avanza anche tre proposte concrete: «La rete diocesana delle Caritas è disposta ad accogliere 150/200 profughi che attualmente sono nel sovraffollato centro di Contrada Imbriacola; accogliere in albergo almeno le donne e i bambini; aprire dal mese prossimo un centro Caritas permanente a Lampedusa».
Il ministro Kyenge ha annunciato la volontà di rivedere la legge Bossi-Fini, qual è la vostra posizione?
Sulla Bossi-Fini ci siamo già espressi in passato. Da sempre diciamo che il reato di immigrazione clandestina (articolo 10 bis) va contro la dignità e il diritto delle persone di spostarsi, soprattutto di chi fugge da situazioni di conflitto. È evidente che legare la possibile revisione della legge alla tragedia appena avvenuta, tecnicamente non è corretto, perché qui si sta parlando di richiedenti asilo, quindi il tema è un altro. Certo, un ripensamento totale, a partire dalla modifica del testo unico, ci vede favorevoli, ma chiediamo che tutte queste morti non siano invano, perché sia il motore di un cambiamento utile e necessario.
Da cosa partire?
È chiaro che andrà rivisto l’impianto del testo unico sull’immigrazione a partire dagli interventi della legge Bossi-Fini. Ma ora siamo in una situazione di emergenza internazionale che va affrontata con strumenti di carattere emergenziale. I canali umanitari al momento sono più urgenti. Le forze politiche devono sentirsi in primis responsabili per affrontare il problema in maniera seria, ma non con spot o interventi dell’ultima ora. Bisogna capire che posizione vuole prendere l’Italia rispetto al tema degli ingressi regolari. Negli ultimi anni non sono state date quote per i flussi: è chiaro che se non diamo nessuna possibilità alle persone che fuggono da guerre e persecuzioni di arrivare in maniera regolare (perché non si tratta di migranti economici), la gente non capirà mai e farà di tutta l’erba un fascio. Non vorrei che tutto venisse schiacciato sulla Bossi-Fini, perché al momento è ancora più urgente un intervento umanitario che parta anche dal non inscrivere nel registro degli indagati chi arriva in Italia per cercare protezione umanitaria. Si tratta di decidere politicamente cosa fare rispetto a questi arrivi di persone che cercano aiuto. Tutti cercano scorciatoie: chi dà la colpa agli scafisti, chi a Frontex, chi ai pescatori che non hanno soccorso. Si tratta solo di decidere: cosa vogliamo fare di queste persone? Le vogliamo aiutare sì o no? Se le vogliamo aiutare abbiamo tutti gli strumenti per farlo, anche andare nei loro Paesi per aiutarli a reinserirsi. Ma non facciamoli arrivare con i barconi.
Invece gli sbarchi continuano e arriveranno sempre più profughi, soprattutto dalla Siria…
Questo è il punto: se non apriamo un canale umanitario costringeremo queste persone ad arrivare comunque con mezzi di fortuna mettendo a repentaglio la loro vita. Cominciamo allora da politiche nazionali, in un quadro europeo, di apertura di canali umanitari regolari. Come è possibile che solo la Germania abbia previsto per i siriani 5mila posti per aiutarli e farli arrivare in sicurezza? Nessuno degli altri Paesi europei lo ha fatto. Allora cosa vogliamo fare? Quale è il nostro strumento? Il nostro strumento oggi è la speranza, ossia sperare che queste persone non affondino in mare. Poi quando succede è la disperazione collettiva. Questo è veramente un paradosso.
Oggi, mercoledì 9 ottobre, arriva a Lampedusa anche il presidente della Commissione europea Josè Manuel Barroso. Cosa gli chiedereste?
Quello che vorrei dire all’Europa, al di là delle accuse generiche, perché non si fa altro che scaricare responsabilità, è di affrontare il tema delle frontiere esterne, oramai cruciale per l’Europa. Non sia semplicemente delegato ai Paesi del Mediterraneo. La redistribuzione delle persone che arrivano in Europa aiuterebbe nel processo di corresponsabilità a livello europeo. Dove sta la solidarietà europea? Serve un piano europeo che non esiste. Si va avanti dicendo che i numeri non sono grandi e si lascia che rimanga un problema nazionale. Ma perché non farlo come Europa? Ci vuole più coscienza, a partire dall’Italia, che per prima deve fare la sua parte.
9 ottobre 2013