“La pecora nera”, il «bello» del manicomio

Ascanio Celestini porta sul grande schermo lo spettacolo teatrale frutto di tre anni di lavoro e interviste con infermieri, medici e pazienti di Massimo Giraldi

Dopo “La solitudine dei numeri primi” e “La passione”, arriva in sala in questi giorni “La pecora nera”, terzo dei quattro film italiani presentati in concorso all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Insolito, anticonvenzionale, coraggioso, il film è diretto da Ascanio Celestini, teatrante e narratore romano (come ama definirsi) nato nella capitale nel 1972.

Se, parlando di cinema, si tratta di un’opera prima, il copione ha un precedente nello spettacolo teatrale “La pecora nera”. Elogio funebre del manicomio elettrico, da lui scritto e messo in scena con il Teatro Stabile dell’Umbria nell’ottobre 2005: era il frutto di tre anni di lavoro e interviste con infermieri, medici e pazienti che hanno conosciuto alcuni tra i maggiori manicomi italiani. I suoi spettacoli (lo sa chi li ha visti) nascono da un lavoro di ricerca sul campo e indagano nella memoria di eventi e questioni legate alla storia recente e all’immaginario collettivo.

Al centro de “La pecora nera” c’è dunque Nicola, ossia Celestini stesso, uno che ha trascorso 35 anni della sua ancora giovane vita in quello che l’uso comune chiama manicomio e nel testo si definisce solo «istituto». Da piccolo, Nicola è stato portato nell’istituto non perché fosse malato, ma solo in base ad alcuni comportamenti insofferenti in genere frequenti nei bambini come lui, ma ritenuti gravi dalla superficialità di famiglia e scuola. Vessato da due fratelli più grandi e trattato con rudezza dal padre (la madre non c’è più), il ragazzo viene accompagnato dalla nonna nell’istituto dove cresce e vive la sua quotidianità, a contatto con i “matti”. La suora responsabile sceglie lui e un suo coetaneo per andare al supermercato a fare la spesa. Tra un giorno e l’altro, scorrono in flashback le immagini dell’infanzia di Nicola, ricordi, attese, speranze, delusioni. E la voce di lui (di Nicola/Celestini) che ripete fuori campo filastrocche, brevi favole, voci onomatopeiche, sussurri quasi strozzati. «Il manicomio – dice – è un condominio di santi. So santi i poveri matti asini sotto le lenzuola cinesi, sudari di fabbricazione industriale, santa la suora che accanto alla lucetta sul comodino suo si illumina come un ex voto. E il dottore è il più santo di tutti, è il capo dei santi è Gesucristo» (scritto proprio così).

Nelle nude pareti dell’istituto la vita di Nicola scorre monotona e tuttavia non rassegnata. Il lacerante contrasto tra follia e normalità si ripropone in modo diretto e perentorio. Senza gridare, richiamando semplicemente la necessità di un trattamento «umano» per tutti, Celestini costruisce a poco a poco il ritratto dell’abitudine all’istituto. «Non è un’opera di denuncia – ha detto a Venezia – ho voluto raccontare il bello del manicomio derivante dall’idea sbagliata che una persona possa decidere il destino di un’altra». Aspro, provocatorio, in più passaggi di struggente poesia (la storia d’amore con Marinella), il film di Celestini ha uno stile sporco e sgraziato come la materia che tratta. Ma è difficile far finta di ignorarlo.

4 ottobre 2010

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