Fighera alla ricerca della bellezza perduta

La modernità e la disintegrazione del concetto di bellezza: il testo ripercorre dalle origini il percorso delle interpretazioni estetiche di Marco Testi

“La bellezza salverà il mondo” di Giovanni Fighera è un libro ambizioso – sia detto in senso positivo – perché rappresenta il tentativo di ritrovare il canone perduto della bellezza. L’ambizione del lungo lavoro sta soprattutto nel fatto che esso ripercorre dalle origini il percorso delle interpretazioni estetiche, offrendo così un utile strumento di sintesi. Il nucleo del discorso di Fighera è che la modernità ha portato, tra i suoi frutti, la disintegrazione del concetto di bellezza, la quale è stata separata dal buono e dalla verità.

Soprattutto il ’700 avrebbe consolidato l’atteggiamento di vedere nel religioso solo superstizione. L’unità di spirito e materia si è scomposta in parti non più comunicanti: il bello può essere amorale o immorale, la verità come fondamento ultimo non esiste, la fede è indipendente dall’opera d’arte e così via. Di fronte alla frammentazione dei punti di vista di quella che possiamo chiamare la modernità (a partire dal XVIII secolo ma con radici che vanno all’Umanesimo), “La bellezza salverà il mondo” richiama all’unicità dell’esistente, nel senso che il riconoscimento del valore artistico di un’opera non può prescindere dalla sua appartenenza ad una unione inscindibile di materia, forma e spirito. Soprattutto l’idea di un progetto insito nella bellezza è basilare per comprendere come questo libro si ponga nell’ottica di rifondazione vera e propria dell’estetica. Vi sono infatti pagine che rappresentano in realtà la proposta di una tabula rasa nei confronti del pensiero laicistico in estetica, e che però offrono proposte precise, come quelle dedicate al problema della fruizione dell’opera, qui fortemente interpretata in senso comunitario, di contro alle derive consumistiche del possesso privato ed esclusivo della presunta opera d’arte.

Libro quindi di impatto nella scena culturale di oggi, ma che presenta alcuni elementi di dibattito che è meglio chiarire: il ritorno all’oggettività dell’immagine poetica, rappresentato per Fighera dal correlativo oggettivo di Eliot, non è un punto d’arrivo o di partenza, ma fa parte delle infinite sfumature sia dei lirici che dei momenti epocali. Eliot stesso è grande poeta anche quando tralasciando il correlativo oggettivo si inabissa in una poesia ardua da capire senza strumenti adatti, e questo vale anche per altri. Non ci può essere un solo tipo di poesia che risponde al canone sopra indicato, ma ce ne sono diversi. In questa diversità sta la grande forza di poesia ed arte in genere. Alcuni scrittori, apparentemente lontani dalla sintesi tra bellezza e bontà, o dal realismo non materialista, lasciano trasparire una fortissima ansia d’assoluto, come Baudelaire, senza dimenticare la lettura, operata da Claudel, di Rimbaud come angelo caduto, o la rivalutazione del «sulfureo» Landolfi da parte del cristinianissimo Carlo Bo. Si corre il rischio, a volte, di gettar via il bambino con l’acqua sporca, anche se con lodevoli intenzioni.

“La bellezza salverà il mondo”, di Giovanni Fighera, Ares, 260 pagg., 16 euro

25 gennaio 2010

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