Dare i numeri nell’Apocalisse
di Andrea Lonardo
144mila (Ap 7, 4). Solo le letture fondamentaliste della Scrittura prendono alla lettera questa indicazione numerica che è invece come tutte le altre cifre dell’Apocalisse da leggere evidentemente in maniera simbolica. Con il 144, multiplo di 12, l’ultimo scritto del Nuovo Testamento allude chiaramente a tutto il popolo di Dio. I versetti successivi indicano, infatti, le dodici tribù d’Israele, perché quel popolo si radica nella discendenza di Giacobbe.
Ma la prima tribù ricordata nell’elenco apocalittico non è quella del primogenito di Giacobbe, Ruben, bensì quella di Giuda, dalla quale è venuto il Cristo. Il testo sottolinea anche che tutti i centoquarantaquattromila sono segnati con il nome dell’Agnello. Quel numero vuole così indicare tutti i cristiani, tutti coloro che si gloriano del nome di Cristo. Alle Dodici tribù si aggiungono così i Dodici Apostoli ed il tutto viene moltiplicato per 1.000 a indicare il tempo dell’intera vita della chiesa (12x12x1000).
Non un numero chiuso, allora, come se il centoquarantaquattromila e uno fosse da escludere dalla lista dei salvati, quanto piuttosto il numero sempre aperto di coloro che si uniscono ai discepoli del Signore entrando alla sequela dell’Agnello.
La bestia, al contrario, è contrassegnata dal numero seicentosessantasei. Anche qui è assolutamente da escludere una interpretazione letterale di questa cifra, con tutte le ridicole ipotesi contemporanee che la cercano tale e quale qui o là. Il numero dimezzato (6 è la metà di 12) indica simbolicamente una quantità che è fallimentare. Il numero dice la pochezza della bestia. I suoi adoratori dicono: «Chi è come la bestia?», ma Giovanni, istruito dal Cristo, sa che quella potenza è solo apparente. Ap 13, 18 aggiunge: «Essa rappresenta un nome d’uomo!». E l’uomo è niente al cospetto di Dio; come si è destato così scomparirà, perché solo Dio è colui che è, che era e che viene.
Così i settenari non indicano il numero delle volte, ma la totalità. Ci saranno sette trombe e sette coppe per invitare i peccatori alla conversione; Dio, cioè, offrirà ogni possibilità di conversione prima del giudizio. Non è una sequenza cronologica nella quale conta il settimo elemento, ma una totalità che attraverso i sette elementi dice la completezza. Così con sette sigilli è sigillato il rotolo che appare al capitolo quinto; esso, cioè, è sigillato in maniera invincibile, nessuna creatura in cielo ed in terra è in grado di aprirlo.
In quel rotolo è simbolicamente celato il significato della storia. A cosa serve vivere? Perché le generazioni si susseguono sulla terra? Perché i genitori danno vita a figli che moriranno a loro volta? Perché si nasce? Perché la persecuzione sembra spegnere la gioia della fede? Il regista svedese, recentemente scomparso, Ingmar Bergman, in uno dei capolavori della storia del cinema, “Il settimo sigillo”, ha colto precisamente questa domanda sul senso della vita che l’Apocalisse porta con sé, nel volto dell’anziano cavaliere che tornato dalle crociate, gioca a scacchi la sua partita con la morte, guadagnando tempo per capire la vita e cosa si debba fare di essa.
Giovanni scoppia in un pianto dirotto dinanzi a questo mistero incomprensibile («piangevo molto», Ap 5,4), ma uno dei vegliardi gli annuncia che «il leone di Giuda», l’«agnello immolato, ma ora ritto in piedi» ha vinto. Solo il Cristo risorto, colui che si è lasciato condurre come agnello, portando su di sé il peccato del mondo, apre infine quel libro e tutto si colora di senso e di speranza. Ruperto di Deutz, nel XIII secolo, insisteva su questo scambio tra il leone promesso e l’agnello donato, ad indicare la peculiarità della redenzione del Cristo.
Queste brevi note sono ispirate ad una straordinaria sintesi esegetica, appena apparsa in libreria, alla quale rimandiamo per ogni ulteriore approfondimento: Gli splendori di Patmos. Commento breve all’Apocalisse, di Giancarlo Biguzzi, edito dalle Paoline. Così scrive l’autore: «Per Giovanni l’agire di Dio e del Cristo sono esprimibili con i numeri. L’arma dei loro avversari è il caos: l’arma di Dio e del Cristo è l’ordine dei numeri, e i numeri sono come la rete in cui le forze sataniche sono chiuse da ogni lato, catturate e vinte».
L’Apocalisse, insomma, è un libro di speranza, che invita a non avere paura di colui che si oppone al Cristo. Anche se l’ultimo scritto del Nuovo Testamento non utilizza mai la parola “anti-Cristo”, termine che è stato coniato dall’autore delle lettere di Giovanni poiché solo dopo la venuta del Cristo emerge colui che gli si oppone, è evidente anche qui che il male nella sua forma più radicale non consiste tanto nelle guerre, nei terremoti, nelle malattie o nelle carestie, quanto nell’opposizione all’Agnello ed ai suoi discepoli, perché solo il Cristo ha la forza di sconfiggere il male ed una vittoria su di lui sarebbe il trionfo del male.
L’Apocalisse testimonia, però, proprio l’invincibilità dell’Agnello, invitando i credenti alla fiducia dinanzi alle prove, perché Babilonia scomparirà e la nuova Gerusalemme come sposa scenderà dal cielo. Non è superfluo sottolineare allora che l’Apocalisse è semplicemente un libro cristiano, che illumina tutta la storia umana della radiosa luce della Pasqua.
Un altro grandissimo regista del secolo scorso, il russo Andrej Tarkovski, ne scrisse: «L’Apocalisse è forse la più grande creazione poetica che sia mai esistita sulla terra. È un racconto del nostro destino. È sbagliato pensare che contenga solo l’idea della punizione. La cosa più importante che essa custodisce è la speranza».
Per l’iconografia dell’Apocalisse nell’arte, vedi l’articolo on-line di Andrea Lonardo, Apocalisse, l’ultima parola della Bibbia: la sconfitta del male. Concordanze fra il testo biblico e gli affreschi della cripta della cattedrale di Anagni, www.gliscritti.it.
15 aprile 2008