Verona, il convegno entra nel vivo

In corso il lavoro nei cinque ambiti. Attesa per la visita del Santo Padre Benedetto XVI, in programma per domani di R. S.

Ormai nel vivo i lavori del Convegno ecclesiale di Verona. La giornata odierna, alla vigilia della visita del Santo Padre, è ancora dedicata alla riflessione e al confronto nei gruppi di studio, dopo l’avvio di ieri pomeriggio. L’introduzione al lavoro è stata offerta ieri da 5 interventi, che qui sintetizziamo con i lanci dell’Agenzia Sir (nella foto di Christian Gennari un momento della giornata di ieri).

Vita affettiva
La vita affettiva come «banco di prova per una testimonianza credibile della speranza cristiana». Così Raffaella Iafrate, professore associato di Psicologia dei gruppi e di comunità all’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha introdotto il lavoro nell’ambito dell’affettività. In realtà, ha osservato Iafrate, oggi, le esperienze affettive sono «sempre più vissute come pura passività incontrollabile dalla libera volontà, come esperienza esauribile nell’hic et nunc, come realtà dell’io individuale», in altre parole si vive «un’affettività senza speranza». In evidenza «c’è una concezione di uomo che nel campo affettivo tende sempre più a diventare “ciò che si sente”, frutto di una separazione tra corpo e mente». La vita affettiva «paga così lo scotto di questa dissipazione antropologica» e «affetto e amore sono spesso confusi con emozione, sentimento, soddisfazione effimera», mentre veramente degno dell’uomo, ha detto Iafrate, è un amore «espressione della persona nella sua interezza, ossia nell’essere umano come essere individuale e sociale, dotato di istinto e di ragione, di passione e responsabilità». In realtà, un’autentica vita affettiva, come esperienza profondamente rispettosa dell’umano, «non può che essere un’esperienza di relazione, congiunta ad una dimensione etica».

Per Iafrate «una delle frontiere più esposte alla deriva emozionalistica ed individualistica degli affetti» e nella quale è più urgente testimoniare «la novità della speranza cristiana» è la famiglia, specie quella fondata sul sacramento del matrimonio, che per il cristiano «è il luogo per eccellenza degli affetti e della stringente responsabilità». Soprattutto, ha osservato Iafrate, in una società come la nostra «ripiegata sull’immediato», la testimonianza della vita familiare dei credenti «può ancora veramente rappresentare un’anticipazione della speranza incorruttibile», capace di «curare le malattie della speranza» del nostro tempo. Occorre, perciò, «riaffermare l’identità della famiglia rifiutando l’edonismo molto diffuso che banalizza le relazioni umane e le svuota del suo genuino valore e della sua bellezza: promuovere i valori del matrimonio non ostacola la gioia piena che l’uomo e la donna trovano nel loro mutuo amore». «Essere testimoni di speranza nella vita affettiva e familiare» è, dunque, ha concluso Iafrate, «accettare il rischio di dare fiducia all’altro, nello scorrere delle transizioni che mettono alla prova i legami» e «lanciare una sfida al non senso a cui sono ridotte oggi le relazioni umane».

Lavoro e festa
«Il modo in cui ci rapportiamo al mondo attraverso il lavoro è soggetto a radicale trasformazione e anche la festa è trasformata in puro momento d’ozio, spesso vuoto e carico di noia»: con queste parole Adriano Fabris, docente di filosofia morale e direttore del master in comunicazione all’Università di Pisa, ha introdotto la relazione per l’ambito del “Lavoro e festa”. In questa situazione, ha detto ancora, «viene meno la relazione tra lavoro e festa come modo in cui l’uomo può vivere il tempo, può volgersi al mondo, può rapportarsi agli altri uomini, può aprirsi a Dio». Il lavoro, che si va facendo sempre più precario, instabile, “flessibile”, non presenta solo aspetti negativi. «Flessibilità – ha aggiunto – significa anche possibilità di cogliere nuove opportunità lavorative. In quanto tale non è sinonimo di insicurezza. Il lavoro che manca, oggi, non è semplicemente lavoro negato. E come tale non è solamente segno di una mancanza di futuro, che porta inevitabilmente alla disperazione». Però ha poi aggiunto che se il lavoro manca per davvero, viene «messo in discussione il senso stesso della nostra vita».

I cristiani sono coloro che sanno vivere la festa e sono capaci di rapportarsi al creato, di contemplarlo e di goderlo come se esso tutto fosse una festa e un’occasione di festa”, ha detto Fabris. «La festa – ha ricordato – non è qualcosa che si consuma. Invece la festa è tempo per… per rigenerare il proprio spirito e anche il proprio corpo». Lo stesso «precetto di santificare la festa» va inteso, secondo Fabris, «come un invito a ricordare che il tempo non è tutto omogeneo, tutto uguale, e che c’è un tempo santo che ci chiama alla sua santificazione». Ha così messo in guardia dal «fare del lavoro una religione» e ha invitato i credenti a «insegnare il senso del tempo e il senso della festa».

Fragilità
Precarietà, marginalità, disagio, crisi. Parole differenti per indicare un unico concetto: quello della fragilità umana. Che va tenuto in considerazione, quindi, nelle tante situazioni in cui ci si confronta con la sofferenza e la precarietà dell’esistenza. A spiegarlo è Augusto Sabatini, giudice presso il tribunale dei minori di Reggio Calabria, che affronta il tema nel suo intervento al Convegno di Verona. «Concepire l’accoglienza delle fragilità – dice –, a partire dalle proprie, come esercizio di autentica umanità o, in altri termini, di santità, di ringraziamento, non come equivoca vai ascetica e penitenziale, non è certamente agevole neppure per un credente. Esistono forme di sofferenza – prosegue – che appaiono umanamente irrimediabili, cioè senza possibilità di riscatto, o più semplicemente prive di speranza redentrice: di esse nessuno direbbe di poter esser lieto o d’averne bisogno. Eppure talvolta soltanto esperienza del genere permettono di scoprire che si può mostrare il volto migliore di sé proprio nella massima fragilità, propria o altrui».

Nella società di oggi si rischia di essere «troppo vulnerabili» di fronte anche a piccole difficoltà. A ogni individuo si chiede di essere sempre più «efficiente, fisicamente e psicologicamente roccioso, rampante in cerca di successo, moralmente ed eticamente norma a se stesso»; ma «dietro la facciata di tanta forza e sicurezza – sottolinea Sabatini – quanti drammi di inferiorità fisica e psichica, dipendenza e solitudine, grettezza ed egoismo, sterilità». In questo contesto i cristiani sono chiamati a vivere una testimonianza con «fedele perseveranza» e «profonda umiltà», proponendo situazioni di fragilità come «punti di forza del rimodellamento di nuovi, più accettabili stili di vita».

Tradizione
La relazione di Costantino Esposito, ordinario di Storia della filosofia a Bari, dedicata alla La presentazione dell’ambito di discussione sulla Tradizione si è aperta con due interrogativi: «Come può un uomo del nostro tempo, più di Duemila anni dopo la venuta di Gesù Cristo nella carne, raggiungere una certezza ragionevole su questo avvenimento? E com’è possibile verificare con ragioni adeguate il fatto che, attraverso la vita della Chiesa, questa presenza mi raggiunga lungo il corso del tempo, e riaccada ora nel presente?». Domande che, coma ha aggiunto Esposito, «riguardano tutti gli uomini di tutte le epoche». Oggi però, più che mai, ha aggiunto, «si fa molta fatica a comprendere la tradizione come una vita; al massimo essa è un glorioso passato da conservare devotamente o archeologicamente, oppure – come nella maggioranza dei casi – qualcosa che si deve ‘aggiornare’ o superare in virtù dell’idea di un continuo progresso in avanti con cui andrebbe reinterpretato il messaggio evangelico».

Di fronte alla trasmissione della fede, che è un dono, il rischio è di dare questa evidenza per scontata «considerala come una premessa ovvia e definitivamente acquisita, per poi passare subito a chiederci cosa dobbiamo fare o quali conseguenze occorre tirare. Con la latente illusione di poterci impadronire noi, e addirittura di poter riprodurre noi, con le nostre strategie e i nostri buoni progetti, la presenza irriducibile dell’essere e la novità sorprendente della salvezza».

Lo studioso ha infine guardato a tre luoghi di trasmissione della fede, la catechesi, la comunicazione sociale e il mondo della scuola e dell’università. Concludendo ha quindi sottolineato «il ruolo educativo alla criticità della scuola cattolica, che è ben lungi dall’essere “indottrinamento confessionale”, perché tale educazione non solo non esclude un’esperienza di appartenenza alla nostra tradizione, ma addirittura la richiede».

Cittadinanza
Discernimento è stata la parola chiave della riflessione di Luca Diotallevi, che ha introdotto ai lavori dell’ambito sulla cittadinanza. «In un’epoca che ha visto la fine di tante ideologie e prassi – ha affermato il sociologo all’inizio della sua relazione -, non è presunzione affermare che i cattolici hanno a disposizione una quantità non trascurabile di un tipo di risorse sempre più scarso, che potrebbe generare, seppure senza alcun determinismo, un’importate svolta civile».

Ci sono due processi in corso, ha spiegato lo studioso, che toccano l’idea di cittadinanza. «Innanzitutto ne sono entrati a far parte, oltre ai diritti civili e politici, anche i cosiddetti “diritti sociali” (lavoro, istruzione, salute, abitazione, informazione, ecc.). Contemporaneamente, è venuto meno il potere dello Stato “di dare effettività a questa nuova e ben più estesa idea di cittadinanza”. In questo scenario il sociologo ha proposto tre riferimenti prospettici per il discernimento: uno teologico, uno spirituale e uno sul rapporto tra religione e politica. Con, sullo sfondo, «un modello sociale europeo in crisi. Anche di valori: riguardo alla vita, la famiglia, la parità scolastica, il declino demografico».

Infine, lo sguardo dell’analista si è posato sulla comunità ecclesiale: occorre interrogarsi su come in essa si viva «un’accoglienza non paternalistica» e su «come si educhi alla partecipazione (con tempo e denaro) e alla produzione di beni pubblici. Infine Diotallevi si è concentrato sulle influenze negative che gravano sui cattolici. Non bisogna cedere alle logiche dello scandalo o dell’indulgenza, quanto piuttosto esercitare umiltà e ascesi. «Non saranno infatti, ambizioni e privilegi, né alcuna forma di religious pride a mostrarci la strada e le forme migliori per l’esercizio del cristianesimo nella città e per la cittadinanza: esse somigliano troppo alla nostalgia per le cipolle d’Egitto».

Leggi le relazioni complete di [size=x-small”>[font=Verdana”>Raffaella Iafrate[/font”>[/size”>, di [size=x-small”>[font=Verdana”>Adriano Fabris[/font”>[/size”>, di [size=x-small”>[font=Verdana”>Augusto Sabatini[/font”>[/size”>, di [size=x-small”>[font=Verdana”>Luca Diotallevi[/font”>[/size”> e di [size=x-small”>[font=Verdana”>Costantino Esposito[/font”>[/size”>.

18 ottobre 2006

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