Maria Rita Parsi

La psicopedagogista, psicoterapeuta e scrittrice: «La nostra società soffre acutamente di pedofobia e di misoginia» di Francesco Lalli

Pedofilia, violenze, aborto, tutela della donna. Argomenti ormai all’ordine del giorno per i mezzi d’informazione ma su cui poco si discute e si approfondisce. Roma sette ha scelto di farlo con Maria Rita Parsi, psicopedagogista, psicoterapeuta e scrittrice. La professoressa Parsi dirige la Società italiana di psicoanimazione che ha fondato nel 1985, è consigliere direttivo e membro della Società italiana di psicologia e, nel 1991, ha dato vita alla fondazione “Movimento Bambino”, una onlus per la diffusione del pensiero e dell’arte dei più piccoli contro gli abusi e i maltrattamenti. Dal 1995 inoltre insegna psicoanimazione e mediazione creativo-corporea – metodologia da lei ideata – presso la cattedra di Psicologia sociale dell’università di Firenze. Collaboratrice di molti quotidiani e periodici, ha pubblicato numerosi libri, l’ultimo dei quali s’intitola “La natura dell’amore. La belva umana e le sue passioni”.

Professoressa Parsi, è notizia di qualche giorno fa la nascita di un movimento olandese che chiede l’abbassamento dell’età per avere rapporti sessuali dai 16 ai 12 anni, oltre alla legalizzazione del materiale pedopornogrfico; qui da noi, invece, è abbastanza recente la sentenza della Cassazione per cui lo stupro di una donna non vergine appare in qualche modo meno grave. Siamo una società che ha problemi gravi con donne e bambini?
La verità è che diamo per scontato che una società progredita a livello legale lo sia anche a livello culturale. La realtà dimostra, al contrario, che la nostra società soffre acutamente di pedofobia e di misoginia, quando non di misantropia vera e propria. Esiste un’aggressività maligna, di cui mi occupo anche nella mia ultima opera, che viene descritta bene da Fromm e che è frutto di un’angoscia per la paura della morte propria di ogni essere umano. Di fronte a essa può esserci una difesa positiva, ovvero un’elaborazione che passa attraverso l’arte, la religione, la procreazione, l’ideologia, oppure una di tipo distruttivo che si può sintetizzare così: “io morirò, ma anche voi con me, e quindi io diventerò la morte”. Dunque l’equazione tra una maggiore paura della fine che caratterizza il nostro mondo occidentale e una maggior numero di perversioni è realistica oltre che preoccupante.

Da che parte cominciare allora?
Bisognerebbe cominciare a guardare il mostro negli occhi. Il fatto che il male, l’orrore, non venga analizzato non aiuta. Si tratta invece di metterlo a frutto, un po’ come avviene con l’anidride carbonica che, attraverso la sintesi clorofilliana, diventa ossigeno. Lo stesso potrebbe valere per la malvagità se venisse filtrata attraverso la creatività: dopotutto siamo un laboratorio biochimico che produce anima. Poi sarebbe utile cominciare a integrare scienza e comportamento per avere un atteggiamento olistico nei confronti dell’uomo.

Anche la pillola abortiva, la RU486, su cui lei ha preso posizione fa parte di questa medesima cultura della morte?
Questo è un nodo delicato. Io non sono contraria alla sperimentazione e alla legge sull’aborto quando serve per preservare le donne da abusi e da quell’orribile mercimonio clandestino che si svolgeva fino qualche anno fa. Penso però che siano necessarie strutture di tutela, di accoglienza, di sostegno, che possano offrire la possibilità di far capire a una madre il passo che intende fare e, se la sua scelta rimane la stessa, di fare in modo che nulla accada senza controllo. La RU486 è l’esatto contrario di tutto questo: significa dare a una pillola un potere e una responsabilità che salta tutti i passaggi possibili, dall’educazione sessuale a quella sentimentale, lasciando l’individuo in modo sconsiderato solo con la sua scelta.

Lei ha detto spesso di non credere in una maternità e paternità biologica ma: «Che ogni essere umano può incontrare nella sua vita genitori e maestri dell’anima, che aiutano la crescita della persona con l’esempio e con l’amore». Vale anche per una coppia di omosessuali che decidono di adottare un bambino come si può fare oggi in Spagna?
Gli affetti, i sentimenti, sono costituiti da tanti passaggi che si producono dal momento dell’uscita dal grembo materno e possono essere frutto anche di figure diverse da quelle biologiche che, per tanti motivi, possono risultare assenti. Differente è il discorso per gli omosessuali che sono capaci certamente di un amore assoluto, di altissima qualità, ma che non ritengo la scelta migliore per un bimbo che deve essere adottato e che venendo da un’esperienza di abbandono, e quindi già di diversità rispetto ai suoi coetanei, si troverebbe a dover gestire una diversità ulteriore. Una famiglia tradizionale, inoltre, facilita i processi d’identificazione e il futuro inserimento sociale del bambino.

Lei dirige la fondazione “Movimento Bambino”. A che punto siamo per la cultura dell’infanzia nel nostro Paese?
Si parla molto, ma poi nelle iniziative sociali, politiche e dei media lo spazio è pochissimo. Anche come genitorialità, in Italia, si è passati dall’autoritarismo al lassismo più totale. Io suggerisco tre parole: amore, ascolto, competenza. Ai figli bisogna dare radici e ali, mentre le istituzioni dovrebbero mostrare più attenzione perché un paese civile ha il dovere di costruire una società partendo dai bambini; sarebbe una società formidabile e rivoluzionaria.

7 giugno 2006

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