Aragon e l’ultimo sguardo sul mondo

Ne “La settimana santa” il racconto dei fatidici giorni pasquali del 1815, con Luigi XV in fuga precipitosa e Napoleone che punta deciso verso Parigi, in un infinito prodigioso ritardo narrativo

La settimana santa, pubblicato nel 1958 da Louis Aragon, alfiere surrealista, quando aveva appena compiuto sessant’anni, ristampato in una nuova assai ben curata edizione (Settecolori, pp. 550, traduzione di Ettore Capriolo, postazione di Franco Cardini, 34 euro), è un’opera in molti sensi singolare ed eccentrica nella quale vengono rievocati, con ogni libertà inventiva pur nel puntuale e strenuo inquadramento storico, con tanto di dizionario finale dei principali personaggi citati, i fatidici giorni pasquali del 1815: re Luigi XVIII è in fuga precipitosa, Napoleone è tornato in scena e punta deciso verso Parigi accolto come un liberatore dagli stessi soldati inviati a fermarlo. Difficile comprendere chi tradisce e chi viene tradito. I passaggi dall’una all’altra schiera sono troppo repentini. Quale spartitore di traffico tematico lo scrittore sceglie Théodore Géricault, il pittore immortale dei corazzieri a cavallo, dei naufragi al largo delle coste africane, dei mentecatti e degli eroi, in questo caso ancora sottotenente, ma già un prodigio con matita e colori, anche lui, come tutti, colto in un passaggio epocale: straordinario l’episodio della requisizione dei cavalli all’indispettito proprietario che vorrebbe veder disarcionato il futuro pittore, il quale si dimostra invece un provetto cavaliere riuscendo ad ammansire un focoso destriero. Settecento pagine fitte e sospese, nell’infinito prodigioso ritardo narrativo, dalla mattina delle Palme alla domenica di Pasqua, dentro quei memorabili cento giorni.

Aragon usa un procedimento lenticolare dilatando le accurate e seducenti descrizioni: adunate in cortile, giuramenti e cospirazioni, movimenti di truppa, sciabole sguainate, annunci, partenze e ritorni, traslochi da una residenza all’altra, speranze e attese, concitazioni e pettegolezzi, proclami e discorsi. Tutto si muove in una specie di fantastica fibrillazione eppure ogni cosa sembra immobile. Sotto i nostri occhi transitano come fantasmi Fouché e Davout, Chateaubriand e Constant, MacDonald e Soult, Berthier e Richelieu, Saint-Simon e David. Una folla di personaggi al tempo stesso veri e inventati, osservati quasi da un oltre, in uno sfalsamento della realtà. Verso la fine della sua carrellata, in un virtuosistico protratto chiacchiericcio, Aragon affida a Gericault un amaro bilancio: «Sì, forse la Rivoluzione… Ma cosa volete che ne sappia, a parte quello che ne ho sentito raccontare?… Tante idee nobili e generose… ma dove sono arrivati? A un bagno di sangue».

E poi in chiusura, uscendo dalla finzione romanzesca e quindi rivolgendosi a se stesso, piazza il colpo decisivo: «Ma forse questo libro è il mio ultimo sguardo sul mondo… Rifiuta una volta per tutte le leggende bugiarde secondo le quali l’antenato è sempre più grande del nipote… La luce è quella delle nuove generazioni, che ti conducono più in alto di quanto tu non sia potuto giungere».

23 gennaio 2023