Anni di piombo: il paradosso dei giovani, dalla speranza alla lotta armata

Nel libro di Angelo Picariello “Un’azalea in via Fani” il racconto dell’esperienza di quelle persone «che sbagliarono, e che per questo hanno pagato con il carcere», e del loro ravvedimento. Agnese Moro: la «responsabilità sociale»

Esposti al «fascino di una classe intellettuale che individuava nella risposta violenta e nell’uso delle armi l’unica alternativa», i giovani vissuti nei cosiddetti “anni di piombo”, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, videro verificarsi una «estremizzazione della dialettica politica» che produsse le ben note violenze di piazza, la lotta armata e il terrorismo, e «gettarono via la loro vita, segnando irreparabilmente quella di tante altre persone». Per Agnese Moro, figlia dello statista Aldo, rapito e ucciso nel 1978 dalle Brigate Rosse quando lei aveva 25 anni ed era una di quei giovani «pieni di speranze, valori e voglia di cambiare il mondo», è importante «smontare la favola che temo passerà alla storia e che viene ripetuta e ricordata nelle commemorazioni ufficiali», e cioè che «in una società fondamentalmente buona, dei piccoli gruppi cattivi spuntarono come funghi maligni, compiendo azioni efferate». È importante invece dire della «responsabilità sociale che comportò quelle scelte di vita» perché «quell’incitazione alla violenza, proposta come l’unica e inevitabile alternativa, può tornare in ogni tempo» e conta mettere in luce «quanto la dinamica del bene sia differente da quella del male, che è istantaneo nella sua azione: il bene ha bisogno di tempo per trionfare perché deve ricostruire delle coscienze e un cuore».

A questa causa di fare luce, anche in chiave preventiva, sulla genesi di «una certa mentalità e sulle esperienze di vita che generarono tali forme di violenza» è utile, per la figlia del presidente della Democrazia Cristiana il cui cadavere venne ritrovato dopo 55 giorni di prigionia in via Caetani il 9 maggio del 1978, l’ultimo lavoro del giornalista di Avvenire Angelo Picariello, “Un’azalea in via Fani. Da Piazza Fontana a oggi: terroristi, vittime, riscatto e riconciliazione”. Il libro, pubblicato dalle Edizioni Paoline, è stato presentato ieri sera, 28 novembre, nella libreria del gruppo San Paolo di via della Conciliazione. «Il tentativo di questo saggio – ha spiegato l’autore – è documentare l’esperienza di quelle persone che sbagliarono, e che per questo hanno pagato con il carcere», raccontando però soprattutto «come sul loro ravvedimento pesi ancora oggi un paradosso» ossia l’avere compreso solo dopo, «interrogandosi in profondità su quanto accaduto», come a portarli a praticare la violenza sia stato il tradimento di quegli stessi valori che volevano difendere e affermare. «Dalla teologia della liberazione, ad esempio, ha preso spunto in Italia tanto l’ideologia dei “preti guerriglieri” dell’America Latina, arrivata in Italia anche attraverso i missionari del Pime, quanto la riflessione che ha dato vita a Comunione e Liberazione, nata per ribadire che la liberazione può venire solo dalla comunione cristiana».

Ecco allora tra le pagine il racconto del caso di Giorgio Semeria, tra i fondatori delle Brigate Rosse, che «si avvicinò alla lotta armata frequentando proprio sia il Movimento di Cl che il Pontificio istituto missioni estere a Milano, prendendo anche parte con padre Pedro Melesi a un’esperienza missionaria in Brasile», che contribuì ad alimentare una riflessione sulle cause politiche ed economiche dell’oppressione, mettendo sotto accusa la società dei consumi. Semeria, uscito di prigione, «si è sposato in chiesa e ha devoluto i doni di nozze alla missione che da ragazzo visitò con quel religioso che suo malgrado lo avvicinò alle ingiustizie, facendo in qualche modo pace con se stesso e potendosi impegnare ora per quegli stessi ideali giovanili in una maniera che non prevede la violenza».

Molti di coloro che hanno scontato la loro pena «hanno anche maturato un sincero pentimento», ha detto ancora Picariello, spiegando come «il libro parte dall’episodio del titolo: la mia visita del 2013 in via Fani, luogo del rapimento di Aldo Moro, con l’ex brigatista Franco Bonisoli, che pose una piantina di azalea davanti alle foto dei poliziotti uccisi dal commando di cui faceva parte». I fiori possono tornare e continuare a sbocciare solo se «le storie del passato non rimangono un esercizio di memoria» ma offrono invece «un’idea di impegno ai giovani di oggi, anche attraverso la documentazione della lotta palmo a palmo tra chi, in quegli anni, ha pensato di cambiare il mondo cambiando se stesso e il proprio cuore e chi invece ha creduto che fosse necessario consegnarsi all’ideologia e a un ideale collettivo e rivoluzionario che è stato fonte di violenza».

Ancora, per il giornalista di Avvenire è importante «insegnare ai giovani a prendere sul serio la voglia di giustizia e di cambiamento che li caratterizza, pretendendo maestri all’altezza delle aspirazioni che li animano». Tale è stato per Oliverio Nicodemo, ex deputato, Aldo Moro, suo docente di diritto e procedura penale alla Sapienza proprio nell’anno accademico del rapimento. «Ogni lunedì e mercoledì – ha ricordato – al termine di ogni lezione Moro faceva l’appello: non per verificare la nostra presenza ma per avvicinarci alla cattedra uno per uno, dedicandoci il suo tempo per capire cosa pensavamo, pur considerando il suo impegno politico di presidente della Dc». In particolare, Oliverio ha messo in luce «la sua incredibile attenzione umana per la persona e la passione con cui spiegava il ruolo emendativo della pena», certo che fosse importante, «anche attraverso il ruolo dei cappellani e delle suore, far sentire ancora esseri umani i colpevoli, richiamandoli a quella umanità che loro per primi avevano ferito con azioni atroci».

29 novembre 2019